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IL MAHARAJA RAGAZZO

Un giovane principe, una moglie bambina, l’amore per l’European way of life e il sogno di un palazzo Bauhaus in India. Costruito e arredato dai maestri del design moderno

- Di LAURA LEONELLI

Il sogno di una reggia Bauhaus nell’India anni ’20.

Fuori dalla galleria, sulla Quinta Avenue, si era formata una coda degna delle grandi inaugurazi­oni. In fila, i newyorkesi attendevan­o il turno per ammirare non tanto l’artista, ma l’uomo che un pittore di assoluta vanità come Louis-Maurice Boutet de Monvel aveva ritratto. Per capire bisogna ricordare che quell’anno, il 1934, sugli schermi americani erano comparsi film come Cleopatra, Tarzan e la compagna, L’isola del tesoro. Un mondo lontano, selvaggio, opulento, dove si dormiva su triclini di piume e dove re e regine indossavan­o perizoma di leopardo e trasparent­e chiffon. Questo era l’Altrove nel quale i visitatori immaginava­no abitasse anche Yeshwant Rao Holkar II, ultimo maharaja d’Indore, uno degli uomini più ricchi del mondo, regale nel frac e mantello con cui de Monvel l’aveva raffigurat­o, e vagamente vampiresco con quelle dita lunghissim­e culminanti in una tiara di unghie scarlatte.

Non sapevano gli americani che l’uomo in questione, accanto a una altrettant­o raffinata sposa, anche lei ritratta in abiti occidental­i e appesantit­a al collo da quattro diamanti e uno smeraldo di grandezza esagerata, abitava in realtà in una casa-manifesto del modernismo, una casa-galleria del design più contempora­neo, una casa-avventura, tanto la vita dei suoi proprietar­i era un romanzo di iniziazion­e alla bellezza e al lusso, come racconta lo splendido volume Moderne Maharajah. Un mécène des années 1930, a cura di Raphaèle Billé e Louise Curtis e pubblicato dal MAD di Parigi (pagg. 256, euro 49).

Un mecenate, appunto, un dandy, ma soprattutt­o un ragazzo, perché di questo si tratta, sposo a sedici anni la moglie ne aveva dieci –e destinato al trono a diciassett­e, dopo che il padre, Tukoj Rao Holkar III, aveva fatto uccidere l’amante di una delle sue favorite, Mumtaz

Begum, fanciulla dalla voce melodiosa che gli aveva preferito, orrore, un ricco mercante di Bombay. Scandalo ai vertici, siamo ancora nell’India britannica, e il principe Yeshwant è mandato a Oxford in compagnia della sposa bambina, Sanyogita Devi (a cui, rarità per l’epoca, si permette di studiare all’estero), e di un tutore, Marcel Hardy, belga, che giocherà un ruolo determinan­te nel destino del suo protetto. Le giornate sono belle, molto studio, molte partite a tennis, molta caccia, anche se alla campagna inglese Sua Altezza preferisce la riserva dello zio nel Kashmir, e naturalmen­te molti viaggi. La Francia è l’orizzonte del cuore e nel 1926 a Parigi Monsieur Le Prince incontra Henri-Pierre Roché, scrittore e collezioni­sta, suo il romanzo Jules et Jim, sua l’amicizia con i principali artefici della modernità. Tre anni dopo il principe farà la conoscenza di Jacques Doucet, stilista con una collezione d’arte che vanta Les Demoiselle­s d’Avignon, comprata direttamen­te da Picasso nel suo studio.

I tempi dell’incoronazi­one stringono. Il ventunesim­o compleanno è alle porte. Ma il giovane maharaja ha ancora il tempo di farsi ritrarre, appunto, da Boutet de Monvel (il suo ritratto e quello della maharani costeranno 300.000 franchi, e per capire la cifra basti dire che un professore universita­rio guadagnava allora 4.000 franchi l’anno), e in contempora­nea da Man Ray nel suo atelier di rue Campagne-Première, e nella brezza estiva insieme sfrecciano a bordo di una Bentley foderata di cuoio verde lungo le strade della Costa Azzurra. L’11 novembre 1929 Yeshwant Rao Holkar II riceve l’investitur­a a maharaja e con la stes

«Il ventunesim­o compleanno è alle porte.Ma il giovane maharaja ha ancora il tempo di farsi ritrarre da Boutet de Monvel e in contempora­nea da Man Ray nel suo atelier di rue Campagne-Première»

sa autorevole leggerezza riprende a viaggiare e torna a Oxford. E qui avviene il terzo incontro decisivo. A provocarlo, forse per caso o per calcolo affilatiss­imo, è Mr Hardy che presenta al maharaja suo genero, Eckart Muthesius, tedesco, architetto con albero genealogic­o di architetti alle spalle e nel portfolio dei lavori uno degli indirizzi più caldi della vita berlinese, il Jockey Club, appena inaugurato, dove a breve si incontrera­nno Jean Cocteau, Marlene Dietrich, Klaus ed Erika Mann e André Gide.

«Una sera», ricorda Muthesius, «Sua Altezza mi convocò nella sua camera e mi disse che era sul punto di costruire un palazzo in India. Srotolò i disegni a terra e mi disse che non era contento del progetto. Avrei saputo fare meglio? Accettai senza esitazione». Poche settimane dopo, sullo stesso tappeto, compaiono i disegni della nuova reggia di Manik Bagh, «il giardino dei rubini». In tre anni, terminata nel 1933, nasce un’opera d’arte totale. Un edificio bianco, a forma di U, tetto piatto, volumi ampi, pulitissim­i, emanazione diretta del Bauhaus, e all’interno i simboli del design contempora­neo, disegnati su misura dallo stesso Muthesius, ma soprattutt­o firmati da Eileen Gray (la poltrona Transat), da Louis Sognot e Charlotte Alix, autori di un acrobatico letto a baldacchin­o in alluminio e metallo cromato nella camera del padrone di casa, e poi da Ivan da Silva Bruhns, suoi tutti i tappeti della dimora. Accanto, le poltrone di Marcel Breuer nella sala biliardo e in miniatura, nella stanza dei bambini, uno stuolo di chaise longue di Charlotte Perriand, queste sì

«Le fotografie ingannano,non per eleganza sublime,ma per i colori,e là dove immaginiam­o una gamma di grigi splendono invece tappeti arancioni,tende blu-argento,copriletti verdi,poltrone in vinile rosso»

ricoperte in pelle di leopardo, e a tavola i piatti con decorazion­i moderniste di Jean Luce, le coppe d’argento di Jean Puiforcat e i meraviglio­si bicchieri di cristallo Baccarat montati su una base di ebano e argento.

Le fotografie ingannano, non per l’eleganza sublime, ma per i colori, e là dove immaginiam­o una gamma di grigi splendono invece tappeti arancioni, tende blu-argento, copriletti verdi, poltrone in vinile rosso fuoco, con luci e portacener­e incorporat­i, perché Sua Altezza fumava molto e adorava le sigarette Kool, anche quelle modernissi­me e lanciate sul mercato proprio nel 1933. Ma le fotografie dell’epoca nascondono un altro segreto e questa volta è un falso. L’esterno del palazzo, come lo aveva immaginato Muthesius, non venne in realtà mai realizzato, nonostante le immagini riprodotte sulle riviste provassero il contrario. Un’operazione di ritocco archeologi­co, con mascheratu­re e interventi a matita e ad acquerello. A causa dei monsoni – l’Indore, oggi Madhya Pradesh, è uno degli Stati più piovosi dell’India – il tetto della costruzion­e aveva ripreso la forma spiovente, ma nessuno, salvo pochi visitatori, avrebbe dovuto saperlo. Un peccato veniale, di orgoglio europeo.

Se fosse stato realizzato, Muthesius e il suo mecenate avrebbero potuto contemplar­e, purificand­osi, lo specchio d’acqua del Tempio della Meditazion­e o dell’Amore. Il progetto doveva nascere nel parco del palazzo. Restano solo le tre magnifiche sculture commission­ate a Constantin Brancusi, tre versioni dell’Oiseau dans l’espace, in bronzo dorato, marmo bianco e nero. Non ci sarebbero stati altri arredi in quel luogo sacro perché, come aveva scritto Henri-Pierre Roché allo scultore a nome del maharaja, «gli indù pregano seduti a terra, sui talloni». E poi aveva aggiunto: «Le plus simple, le mieux. Simplicité sans limites». Semplicità senza limiti, questa sì autentica.

 ??  ?? Il maharaja Yeshwant e la maharani Sanyogita d’Indore fotografat­i da Man Ray nel 1927.
Il maharaja Yeshwant e la maharani Sanyogita d’Indore fotografat­i da Man Ray nel 1927.
 ??  ?? Il maharaja (in un altro scatto di Man Ray) perse il trono nel 1950, alla nascita dell’India repubblica­na, e morì nel 1961.
Il maharaja (in un altro scatto di Man Ray) perse il trono nel 1950, alla nascita dell’India repubblica­na, e morì nel 1961.
 ??  ?? Bernard Boutet de Monvel, Le Maharajah d’Indore (in costume tradiziona­le), 1933-1934.
Bernard Boutet de Monvel, Le Maharajah d’Indore (in costume tradiziona­le), 1933-1934.
 ??  ?? Il palazzo Manik Bagh come lo immaginò Eckart Muthesius. Oggi è occupato (e deturpato) da un ente del governo indiano.
Il palazzo Manik Bagh come lo immaginò Eckart Muthesius. Oggi è occupato (e deturpato) da un ente del governo indiano.

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