Mamma mia, non perdiamoci di vista
Elizabeth Strout con il suo libro più famoso, Olive Kitteridge (Fazi), diventato anche serie tv, ha trasformato Crosby, immaginaria cittadina del Maine, nel centro del mondo. I grandi scrittori, e Strout senza dubbio lo è, fanno così: in modo naturale ci immergono in una storia, dandoci l’idea di aver sempre vissuto lì dentro, facendoci anche dimenticare, oltre il tempo della lettura, ogni cosa brutta che ci riguarda. Succede anche con Mi chiamo Lucy Barton, minore per dimensione e ambizioni, ma potente nel delineare la voce dell’io narrante. Da tre settimane in ospedale per le complicazioni di un’operazione banale, la protagonista si trova davanti all’improvviso sua mamma, arrivata dal profondo dell’Illinois. Ormai newyorkese, sicura di sé (o almeno così crede), a sua volta madre, Lucy piano piano scioglie, grazie a quella voce che arriva da lontano, grumi di dolore che si porta dentro sin da quando è ragazzina. Oltre il non detto e le tante parole che rimangono sospese tra le due donne, si crea un’oasi dove per cinque giorni si incontrano: quel flusso che le riunisce scatena un momento intenso in cui, in modo diverso, si rendono conto di amarsi. E di non poter fare a meno l’una dell’altra. La vita poi seguirà traiettorie che non aiuteranno più a creare situazioni così coinvolgenti, che restano quindi ancora più indelebili. Anche per noi che leggiamo: Strout con la capacità di entrare nelle pieghe dell’anima, ci fa vivere in quel groviglio di sentimenti che passano dal più difficile da elaborare al più lieve da assorbire, portandoci in un cammino ricco di emozioni.
Mi chiamo Lucy Barton traduzione di Susanna Basso Einaudi, pp. 163, € 17,50