Dove mi trovo
senza soffitta, senza cucina. Per sentirsi protetti BASTA UNA VALIGIA, neanche tanto grossa ma con le rotelle. E poi, portare a spasso la propria quotidianità. Un ETERNO MOVIMENTO, dove la piantina dell’abitazione è disegnata dalle destinazioni sulle carte d’imbarco
IO VIVO senza casa
e vivo in viaggio. Vivo in viaggio io, vive in viaggio mio figlio, vive in viaggio mio marito, vive in viaggio il padre di mio figlio (persona diversa). Abbiamo unito due famiglie, abbiamo ora lavori in posti e Stati diversi, abbiamo sempre i passaporti nel portafoglio e carte di imbarco che si scaricano male sulle schermate del telefonino. C’è bisogno di noi nei posti di prima ma anche nei posti nuovi. Quindi siamo senza fissa dimora per scelta, non di nascita ma di identità. La nostra casa vera allora, allargata come allargata è la famiglia, è composta da varie città, vari corridoi a cielo aperto, almeno tre cucine, qualche letto d’albergo, lingue diverse, qualche letto di mamma/nonna, qualche divano di amici. Quindi definire la piantina della nostra abitazione, di quello che è nostro e quello che non lo è, è diventata una questione sempre più arti- colata e un esercizio che ha sempre meno senso. Nella nostra non-casa, che occupa almeno tre città e due Stati, fino a poco tempo fa entrambi europei, ci sono dei gate, delle hostess, dei trolley. Alcuni steward di Ryanair sono diventati fratelli di turbolenze (hanno paura di morire anche loro). Alcune hostess di EasyJet ci salutano con i soprannomi (hanno paura di morire anche loro). Le nostre case, mie e di mio figlio soprattutto, sono quindi i trolley. E i trolley non
UN MONDO che SI ALLARGA. quando viviLE STRADE diventano PIù GRANDI tra un posto E L’ALTRO
sono case, sono trolley. E quindi abbiamo comprato trolley molto moderni e che, anche se sono bagagli a mano, tengono dentro armadi a due ante. All’inizio, per via di come avevamo vissuto fino a quando non abbiamo più avuto una casa ma abbiamo avuto a disposizione migliaia di chilometri e abbiamo cominciato a vivere in viaggio, la questione ci pareva faticosa. In nessuno dei frigoriferi c’era da mangiare, le lavatrici non stavano dietro ai nostri arrivi e alle nostre partenze, scrivere o fare i compiti era una questione precaria. L’organizzazione necessaria per vedere amici o familiari aveva in sé troppa organizzazione per sembrare divertente.
ALL’INIZIO, senza casa, non sapevamo infatti neanche bene lavorare, o studiare o dormire. O essere amici, genitori, figli. Ci eravamo infatti abituati, e ci avevano abituati, che ci volevano sempre le stesse scrivanie e che nella routine dello stesso letto, dello stesso quartiere, stava la nostra pace e dunque la nostra missione. Nella nostra disponibilità stava la cura, nella nostra presenza continua stava la dedizione. Quello che ci avevano insegnato, noi lo facevamo. Anche quello che ci avevano insegnato a desiderare, ordine, ritmo, proprietà, appartenenza, casa, un tappeto, accumulare, domesticità, le tende, una scatola con gli anelli, pensavamo di doverlo desiderare. Per qualche tempo, l’abbiamo anche desiderato, abbiamo comprato dei cassetti, abbiamo scelto dei divani. Poi è passato. Piano piano, nel mondo più largo e nelle strade più vaste, allungando lo sguardo e accogliendo molte più parole, e parole di molte più persone, è arrivata anche una inaspettata pace e una nuova leggerezza. Nel distacco continuo, nella frase ripetuta, quando torni, quando parti, dove sei ora, è arrivata un’identità che racconta il nostro movimento, la fluidità e la mobilità anche delle intenzioni, il dubbio costante, la famiglia allargata, la casa non casa. Perché noi viviamo appunto senza casa e viviamo appunto in viaggio, tra un posto e l’altro, quindi andare dal dentista o avere il cane è complicato, i cani ci odiano, i dentisti ci odiano, ma anche noi odiamo loro (i dentisti,
non i cani). Però le persone spesso sono più felici di vederci e hanno per la nostra presenza, un occhio di riguardo. Sei tornata! O, voglio vederti prima che riparti! Mi manchi! Spesso quindi le persone ci parlano con i punti esclamativi e questo è commovente. Provocare punti esclamativi, chiedere ospitalità e svegliarsi in case altrui, dare il frigo in prestito, mancarsi, dire arrivederci, funziona proprio. Decollare, vedere l’azzurro sopra le nuvole, atterrare, adattarsi a un nuovo clima, cambiare lingua, tutto questo muove il cuore, riempie il cervello, fa sorridere e anche, funziona.
LA FATICA, perché tutti
ti chiedono della fatica, allora passa solo per il corpo, la questione tecnica delle sveglie per i voli, delle valigie da trasportare, dei ritardi che esauriscono le energie, delle scale da fare con il peso delle scarpe e dei vestiti per la settimana (comunque vada nessuna casa-non-casa ha l’ascensore), di riempire e svuotare armadi spesso stretti. Però le fatiche connesse ai possedimenti, l’assicurazione di una macchina che non si ha, le tasse di una casa che non si possiede, la claustrofobia della routine, bilanciano e regalano quiete nella tempesta del trambusto, del ripiegare, dello scegliere ancora una volta che scarpe è giusto portare, quante calze, non dimenticare il caricatore del computer e il kindle, guardando sull’iPhone se da giovedì piove o nevica o c’è il sole. Poi si può scegliere una sola cosa che ci sia sempre, ovunque si atterri, che faccia casa, una musica o un cuscino o una bevanda. Noi abbiamo scelto l’avocado. Fa cena o fa colazione, è uguale. Da vedere è buffo. Mezzo frutto mezza verdura, resiste alle scosse, al trasporto, ci sfama e anche da marcio non diventa troppo cattivo. Ci ricorda che abbiamo un gusto preciso, un’identità e che il nostro gusto preciso resiste anche lui al trasporto. Così anche nel movimento, una sola cosa che fa ridere e che ci sfama, diventa il nome casa e diventa tutta la nostra casa. Allora si apre la valigia, si appoggia l’avocado su un tavolo, si dice eccomi, sono arrivato. Poi con l’unghia si incide la buccia e, se si vuole, lo si mangia a morsi.
SINCHé UN GIORNO non ti rendi conto CHE L’IDENTITà non te la dö UNA CASA ma la passione per l’avocado