Les toits de PARIS
eclettica, imprevedibile, dalle mille sfaccettature, la Ville Lumière appare come un tutt’uno, nella sua magnificenza, dai suoi abbaini. e si resterebbe per ore a osservarla DALL’ ALTO, come si fa con il fuoco o con il mare
NON SI PUò dire di conoscere
Parigi se non si è stati sui suoi tetti. Parigi è molteplice, diversa, variegata. Fate un giro nel Marais: non ha niente a che vedere con il Trocadéro. O fate una passeggiata fra Saint-Germain-des-Près e la Bastiglia, vedrete come l’ambiente cambia velocemente. Quante città, quanti villaggi convivono uno di fianco all’altro? Parigi è una moltitudine di epoche, di storie, di personaggi, ma è anche il ricordo di libri, di film, di fotografie. È una città nella quale si rivelano gli strati della storia, dei secoli, delle architetture: tutto si affianca e si sussegue in armonia, tutto è diverso ma, paradossalmente, unito. Si riconosce, si scopre e non si è mai delusi: Parigi corrisponde alle aspettative, anzi, le supera. Tornateci quanto volete, scoprirete ogni volta di non avere mai visto tutto. Se anche ritroverete intatti i vostri ricordi, i luoghi del vostro passato, ce ne saranno sempre di nuovi. Perfino i parigini non smettono di sorprendersi – abbagliati dalla luce o dalla bellezza, ma anche stupiti di scoprire sempre qualcosa, una via, un edificio, un giardino o un negozio che non conoscevano. Qualcosa di magico avviene, però, quando ci si trova su un tetto parigino, affacciati alla finestra di un piano alto o su una terrazza: si vede l’intera città. È così che, in modo davvero sorprendente, la capitale trova la sua unità, la
È come UNA DONNA dal portamento elegante, di cui si nota LA GRAZIA DI UN gesto: uno charme ineludibile che si NUTRE DI mistero
sua vera identità, diventa una cosa sola, un tutto. La credevamo schizofrenica e la vediamo invece equilibrata. Sì, certo, si nutre di questa grande diversità di stili, di abitanti, di storie che sono i suoi atout e i suoi atomi, ma lì, d’un tratto, grazie a quella visione panoramica viene da dire: “Questa è Parigi!”. Si riconoscono i singoli monumenti - l’Opéra, il Pantheon, le torri di Sainte-Clotilde - eppure sembrano tutti diversi. A volte - per esempio se ci si trova a Montmartre - si può vedere molto lontano e allora si nota una terrazza, lo studio di un artista o una di quelle piccole finestre sotto un tetto di lamiera a V (abbaini detti “chien-assis”, cane seduto, perché somigliano veramente a un cane seduto), e come in un gioco infantile ci si stupisce di scoprire mille particolari. Si guarda vicino, poi più lontano, e gli occhi esitano tra il vedere, il guardare e l’osservare. È come una donna dal portamento elegante di cui si nota la grazia di un gesto, la mano che si posa delicatamente sulla collana o che sistema una ciocca di capelli nello chignon, il sorriso mentre guarda con la coda dell’occhio: uno charme ineludibile che si nutre di mistero. Che cosa c’è all’origine di quella bellezza? Il naso, la curva sinuosa delle anche, la mano appoggiata sul collo, il movimento? Impossibile saperlo. Parigi è così: un tutto, fatto di splendore. Vista da un tetto questa magnificenza colpisce e affascina. Si può re-
stare a guardare per delle ore senza stancarsi, come davanti al fuoco o al mare. È una cosa che va oltre la ragione, è qualcosa di più e di meglio: un’emozione. Talvolta, riguardando le foto delle vacanze, ci si rende conto all’improvviso di quanto fosse bello il luogo in cui ci trovavamo. È un paradosso dell’essere umano: vede meglio in un rettangolo circoscritto che sul posto. La felicità si nota a distanza?
VISTA da un tetto
la città sembra inquadrata in una diapositiva e tocca più facilmente il cuore. La notte del 31 dicembre 1999 l’umanità entrava in nuovo secolo e io tossivo come la signora delle camelie. Non potendo uscire, siamo saliti fino a un abbaino che usavamo come ripostiglio. Dalla finestrella con i battenti arrugginiti e cigolanti si scorgeva la Tour Eiffel illuminata. Era uno spettacolo degno del più grande cabaret del mondo: da ogni parte si irradiavano lampi e dal corpo si diffondeva un fuoco d’artificio elettrizzante. La vecchia icona appariva visibilmente inquieta nel ritrovarsi così agghindata, e nel sentirsi ancora una volta il simbolo di una città che pure avrebbe voluto distruggerla nei suoi primi anni. Era una rivincita grandiosa e sfavillante. Si aveva l’impressione che le lance di fuoco non volessero smettere di uscire dalla torre di ferro. Nel mio ventre, in cui cresceva una bambina, sentivo vibrare l’energia sprigionata per fe- steggiare il nuovo millennio. Davanti a quella finestra incastonata nel tetto ero come in un minuscolo cinema e assistevo a un film effimero. Ma oggi so di avere ammirato, quella sera, qualcosa di più grandioso di ciò che ha visto la gente in strada davanti al monumento illuminato per la storica notte. La camera oscura, certo, la nascita del cinema, l’invenzione dei fratelli Lumière.