La medusa? Èun EMOJI!
trasformare il MARCHIO in un’immagine digitale è l’ultima sfida della Maison. Perché la moda non può permettersi di essere burocratica. Così, ai GIOVANI con cui lavora, la stilista ha chiesto: “Fatemi vedere la mia storia con i vostri occhi”
«HAI VISTO? Non so quello
che dico, ma almeno ho parlato tanto», scherza alla fine dell’intervista Donatella Versace. È un paradosso che una donna sincera, diretta e dalla battuta pronta come lei soffra di una singolare forma di timidezza: non pensa di essere “brava” a parlare di sé. Per chiudere subito la questione e dimostrare che Donatella è un soggetto straordinariamente interessante, ecco il virgolettato, integrale, della risposta alla domanda su quanta importanza abbia avuto per lei la campagna #MeToo contro le molestie e per i diritti delle donne. «Le donne, nel 2017, sono state protagoniste e continueranno a esserlo anche nel 2018. Questa campagna è eccezionale: era davvero difficile cominciare e, poi, farla diventare un caso di massa, ma le donne hanno capito il potere di avere una voce. Non è una competizione tra generi, il femminismo non lo è mai stato. È l’affermazione di un principio. Libertà, dignità. Uguaglianza. Rispetto. La loro forza è incredibile: grazie al loro coraggio, sono ancora più orgogliosa di essere donna. La storia ricorderà questi mesi, ma dovremo anche ricordare che all’inizio c’era chi dubitava. Oggi la credibilità è stata conquistata, #MeToo ha segnato una svolta. Non abbiamo più paura. Di niente. E tutto il mondo adesso ci ascolta».
Per questo prima diceva che, in un certo senso, non voleva che il 2017 finisse?
Sì, ridendo pensavo: 2017, perché finisci, non puoi durare ancora un po’? È stato un anno eccezionale per il lavoro, per l’azienda, ma anche un anno con tantissime emozioni forti. Per ricordare Gianni, nel ventesimo anniversario della scomparsa, ho dovuto fare cose che avevo sempre evitato. Nei 20 anni che ho vissuto senza di lui ho sofferto molto e, per non provare ancora più dolore, ho nascosto emozioni, ho conservato i ricordi, ma c’erano troppe cose che non volevo rivivere. Invece, nel 2017, ho forzato me stessa a guardare indietro.
Come si è sentita?
Ho capito che quello che avevo pensato come un omaggio - a Gianni, alla sua vita e alla sua carriera straordinaria - si è rivelato una con-
solazione. Avevo il terrore che non si riuscisse a raccontare, in una sfilata, il suo genio. Che cosa le manca, nella moda, senza Gianni? La sua creatività incommensurabile. Più passa il tempo, più vedo Gianni come una figura che appartiene alla moda ma anche all’arte contemporanea. Qual era il suo segreto, al di là del talento unico? Gianni non pensava al consumatore, pensava alla moda. E se lui fosse al lavoro oggi? Sarebbe uno stilista diverso. Vent’anni fa c’erano Gianni e pochi altri. Adesso c’è un’offerta enorme. Forse troppa, probabilmente. Lei è diventata, suo malgrado, una specie di celebrity sui social media. Suo fratello come avrebbe affrontato il mondo digitale che, al momento della sua scomparsa, era davvero nella primissima infanzia? Oh, sono certa - certissima - che Gianni con il digitale si sarebbe divertito. Avrebbe preso i social e li avrebbe fatti suoi. Lui aveva un modo diverso di fare qualunque cosa. Guardava avanti, sempre. Prima la moda era per pochi eletti, adesso è popolare in tutto mondo, anche tra chi non la acquista. È un’evoluzione democratica che a lui sarebbe piaciuta molto. Che cosa, oggi, non gli sarebbe piaciuto? Sentirsi dire da qualcuno che cosa doveva fare, che cosa doveva ven- dere nei negozi. Altro che merchandising, Gianni era un vulcano, difficile da tenere sotto controllo! Lei come vive la tensione tra esigenze commerciali e creatività? Da noi la creatività ha avuto sempre spazio. La moda non può permettersi di essere burocratica: con un po’ di occhio clinico capisco, quando guardo le altre collezioni, che cosa sono costretti a fare certi stilisti, che cosa gli hanno chiesto di realizzare. Alessandro Michele - che mi piace tantissimo - da Gucci è libero, lo vedi. Altri un po’ meno. Tra i colleghi chi le piace? Maria Grazia Chiuri è brava, ancora di più adesso, perché lavorare da Dior è difficilissimo. In un’intervista al Corriere della Sera di qualche anno fa, lei non si fece problemi a dire che la grande distribuzione realizza in Asia copie degli
abiti delle passerelle e li vende poco dopo nei negozi a prezzi bassissimi. Oggi è cambiato qualcosa? La moda dei prontisti come Zara - che, dopotutto, è un prontista - produce fatturati. È un fenomeno che non sta scemando, anzi: chi ha forte identità nella moda è facile da copiare. E fare causa a chi copia è quasi impossibile. Ci si mette un attimo, per esempio, a replicare le nostre stampe. Si cambiano due cosette e ci si salva da una causa! Certo i social media aiutano molto le copiature… Ma c’è un “ma”: è strano per me vedere il grande seguito di giovani che ho su Instagram. E penso che succeda perché Versace ha una storia vera da raccontare e loro, i ragazzi, lo percepiscono. Le nostre stampe sono un segno riconoscibile, ma l’heritage devi saperlo usare. Che cos’è la verità nella moda? Essere sempre se stesse. Alessandro Michele non sta a casa sua con la tuta, la canottiera, a fare zapping davanti alla partita. E neanch’io: io mi vesto così, sono così, il mio gusto è quello. Ecco, io credo che la verità venga capita dai giovani. Il suo studio è pieno di ragazzi. Tanti sono inglesi, perché lì ci sono alcune delle scuole migliori. Mi aiutano, io cerco sempre di captare nuovi stimoli. Mi è parsa bellissima, ad esempio, l’iniziativa di Supreme: un’app, un certo giorno arrivano le novità, ricevi un alert e puoi comprarle. Ecco, questo è un processo democratico, anche se a qualcuno può non piacere. Le sfilate hanno ancora senso in questo mondo nuovo? La sfilata è importante, ma non fondamentale. Fondamentale è creare un’immagine che va oltre, da mettere sui social media. Faccio un esempio: per la nuova campagna ho chiamato Steven Meisel, uno dei più grandi fotografi di sempre, un maestro. Ma gli ho affiancato un art director giovanissimo, che si era occupato di Adidas ma mai di un brand di moda. Ferdinando ha cambiato il logo cinque volte, ha lavorato sulle meduse nella storia dell’arte, tanto che alla fine sono diventate emoji. Tutto per creare una storia che va oltre la sfilata, il sogno della passerella va reso più interessante: collaborare con i giovani è fondamentale. Oggi tutti parlano di streetwear, la nuova frontiera. Credo che durerà ancora un paio d’anni, poi finirà, perché non sarà più interessante. Il problema dello streetwear è che non ha profondità, non ti resta nell’armadio, è prendie-getta, trovo allora più interessanti i ragazzi dei capi che indossano. Versace è un marchio potentissimo, come dire la Ferrari. Come si guida una macchina così potente? Invitando i giovani a vedere il tuo heritage e a darne una loro valutazione. Ho collaborato con JW Anderson, Christopher Kane e Anthony Vaccarello e guarda che carriera stanno facendo adesso (i primi due hanno un loro brand, il terzo è direttore creativo di Saint Laurent, ndr)! Ho lavorato per due anni con Michael Halpern che sarà il prossimo a fare il salto. Questi ragazzi hanno qualcosa da dire e io gli chiedo: “Fammi vedere la mia storia con i tuoi occhi”. Si va avanti solo dando spazio ai giovani creatori. Non hanno bagaglio culturale? Io ti do il mio, ma tu dimmi com’è, alleggeriscilo. È un confronto continuo. Una gioia. I ragazzi adorano la Medusa e io gli dico: “Fatele male, cambiatela, vi ho chiamato qui apposta”. E alla fine, se la Medusa si trasforma in un emoji, è fantastico, snaturare il logo è divertente. Certo è difficilissimo farlo bene. Se però ci riesci, è davvero liberatorio. Parlando di ex giovani: a settembre dell’anno scorso ha ricordato Gianni portando in passerella Carla Bruni, Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Cindy Crawford, Helena Christensen. Indimenticabile. Le ragazze degli Anni 90. Le ragazze di Gianni. Queste icone hanno inventato la celebrità delle modelle, hanno preso il posto delle attrici e, dopo di loro, senza di loro, si è svuotato tutto. Alla sfilata applaudivano, e piangevano. Si è commossa anche lei? Non c’era tempo! Più si emozionavano più il trucco colava e io gridavo: “No, il trucco no, non piangete. Mi rovinate il trucco!”.