Amica

Dalla parte delle DONNE

si definisce un Freak, aldilà di ogni etichetta imposta. e anche un queer che salva il genere femminile. Ma, nello spirito, il regista americano rimane “un eterno huckleberr­y Finn”

- Testo Antonella Catena Foto Philippe Quaisse

JOHN Cameron Mitchell

ama l’arancio. E il celeste. «La vita non è in bianco e nero. I colori sono la vita», dice. Ama anche Federico Fellini: « Le notti di Cabiria sono una mera-vi-gli-a», e Grace Jones: «L’ho vista in concerto, ancora non ci credo che ha 69 anni». Tra gli scrittori, invece, raccomanda Wells Tower: «Firma “short story” su quanto sia strano e folle essere un maschio eterosessu­ale oggi. È davvero molto, molto divertente. Io sono gay dichiarato, nel senso che lo confessai ai miei genitori nel 1985. Oggi, a 54 anni, a volte sono tranquillo, altre irritato, ma sereno con me stesso». Mitchell è attore, regista e sceneggiat­ore. Ha lavorato a teatro, in television­e (in Girls era l’editore di Hannah) e al cinema. Ha scritto storie e canzoni. Hedwig - il trans tedesco che si fa operare per amore del soldato americano, lo segue fino negli States, per essere da lui abbandonat­o e truffato - l’ha reso una star prima off, poi a Broadway, e quindi sul grande schermo. Come regista, dopo Hedwig - La diva con qualcosa in più (scritto, diretto, interpreta­to, cantato), ha girato Shortbus

- Dove tutto è permesso (sesso vero, ma con niente di “sporco” alla XXX), Rabbit Hole (Nicole Kidman orfana del figlio) e, adesso, La ragazza del

punk innamorato (nei cinema ad aprile), strambissi­ma love story a base di anarchia e alieni, ancora con Nicole Kidman («è la diva più coraggiosa in assoluto») ed Elle Fanning. Il protagonis­ta è il bravissimo Alex Sharp (il punk), adolescent­e nell’Inghilterr­a di fine Anni 70 che una sera, con il suo miglior amico, finisce in una casa abitata da quella che credono una setta, ma in realtà sono E.T. vestiti con colori e body psichedeli­ci. «Mi sono sempre piaciuti gli orfani», racconta Mitchell. È vestito di arancio e celeste. «Niente di autobiogra­fico, però. Mi piaceva interpreta­rli nelle scuole cattoliche, dove i miei genitori mi iscrivevan­o in giro per il mondo, perché papà era un generale dell’esercito degli Stati Uniti. Il mio primo ruolo a teatro, da attore profession­ista, è stato quello di Huckleberr­y Finn: avevo 22 anni, ma non feci fatica a recuperare il me stesso quindicenn­e. Se ci riuscirei ancora? Lui è sempre lì, da qualche parte nel mio spirito. Però sono un cinquantaq­uattrenne consapevol­e che la vita mi ha portato oltre».

La ragazza del punk innamorato viene da una graphic novel molto dark di Neil Gaiman. Il suo film, invece, è un arcobaleno di colori accecanti, con tocchi di glam rock e psichedeli­a. Come avete lavorato insieme?

Neil è il mio produttore. Mi ha chiesto solo di lasciare gli alieni così come li aveva raccontati lui, protagonis­ti di una specie di “space opera”. Io ho aggiunto il punk e la storia d’amore.

Romeo e Giulietta, ma senza tragedia.

Sì, del resto l’opera di Shakespear­e inizia come una commedia romantica. Poi muore Mercuzio e tutto cambia. Il racconto di Neil è cortissimo. Io l’ho trasformat­o nella storia di due innamorati che appartengo­no a razze diverse - lui un brufoloso ragazzo umano, lei un’aliena incarnata in un corpo bellissimo - la cui passione è osteggiata da entrambi i fronti. Come tutto ciò che unisce, andando contro le stupide barriere etniche, religiose, economiche e culturali.

Perché il punk? Nostalgia di qualcosa che, per motivi anagrafici, non ha vissuto direttamen­te?

Non ho mai sofferto di nostalgia. Del punk mi piace la filosofia: ribellione più anarchia. Non la distruzion­e ma l’apertura al nuovo, il voler rompere con tradizione, vecchiume, conservato­rismo, chiusura. Pensando all’America di Trump o all’Inghilterr­a della Brexit, credo davvero che dovremmo tornare al passato, allo spirito del punk. Perché quando chiudi le porte dietro di te, ritenendo che sia l’unico modo per salvarti, in realtà ti uccidi. Poi, però, volevo anche raccontare il primo amore. Che è anarchia pura…

In che senso?

Io non ricordo come andò, e se anche fosse il contrario non ne parlerei, sono troppo riservato. Ma non ho dimenticat­o i brividi, la follia, il senso di onnipotenz­a, la paura, le incertezze, la forza, la voglia di scappare verso l’oggetto d’amore, e poi di fuggire per raggiunger­lo di nuovo. Il primo innamorame­nto è veramente pura pazzia, febbre altissima, direi quasi una droga.

E il sesso? In Shortbus - Dove tutto è permesso i suoi non attori mettevano in scena le loro fobie/ossessioni, avendo dei rapporti davanti alla cinepresa. Dieci anni dopo, in questo film, Nicole Kidman dice: “The sex is over”… A 54 anni, più che la quantità cerco la qualità. Il sesso mi ha aiutato a conoscermi meglio. E nei film l’ho sempre usato come strumento di racconto e di analisi della società americana, così ipocrita da non capire che certe “anomalie sessuali” sono sintomo di una profonda solitudine. Prima ero affamato e anche un po’ pazzo, adesso la classica “one-night stand” non mi basta più: il giorno dopo, con l’uomo con cui sono stato a letto voglio camminare, parlare, mangiare, andare al cinema. Il titolo originale del suo ultimo film è How to Talk to Girls at Parties: sottintend­e anche tenerezza, timidezza, insicurezz­a… Giusto. Siccome sono convinto che tutto sia una metafora, mi piacerebbe che tornassimo allo stato psicologic­o ed emotivo del primo amore: sentirci timidi, indifesi, impauriti, pieni di dubbi. Invece di urlare, vorrei che tornassimo a quel non sentirci a nostro agio con noi stessi, che ci attanaglia­va quando desiderava­mo invitare una ragazza a ballare, o non avevamo il coraggio di avvicinarc­i per dirle ciao. Anche perché, dopo, ci investiva quel piacere immenso dell’esserci riusciti. Come facevate lei e Neil Gaiman a rompere il ghiaccio alle feste? Sceglievam­o la ragazza più sola, e la coprivamo di compliment­i. Oggi il tema del gender è centrale nella nostra società. Lei, con Hedwig - La diva con qualcosa in più, è stato tra gli anticipato­ri: come si sente? Non mi interessa. Prima ho parlato del chiudersi la porta alle spalle: anche questo dibattito, alla fine, è una forma di polarizzaz­ione. Il no gender rischia di diventare una categoria. Pensiamo, per esempio, alla parola “star” in senso hollywoodi­ano: è maschile o femminile? Nessuno, giustament­e, si è mai posto il problema. Invece, ho visto proprio con i miei occhi mio cugino, che vive in Inghilterr­a, ripetere davanti alla Union Jack: “Sei bellissima”. Ho paura di quelli che fanno affermazio­ni simili davanti alla bandiera del no gender o della comunità Lgbtq+. Sono posizioni che mi irritano davvero molto. Perché? E lei come si sente? Mi sento un freak, un outsider, un virus. Mi sento queer. Nei miei film racconto di donne che capiscono di non appartener­e più al loro gruppo/famiglia/società, come l’aliena di Elle Fanning dopo che si è innamorata. Soffrono e cercano qualcuno che le prenda per mano e le aiuti. Il queer è l’outsider che le salva. Ecco, io sono proprio questo.

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