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Giardini bottiglia IN

- Testo Mariatilde Zilio Foto Aisha Zeijpveld Petra Blaisse

gni parco è un messaggio. Come la Biblioteca degli alberi di Porta Nuova a milano, che verrà inaugurata a ottobre. Con le sue piccole foreste circolari e percorsi seNza limiti chiede di poter crescere come fosse una di famiglia. lo spiega la designer olandese che dice: “l’elegaNza è tolleranza”

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«E MI RACCOMANDO, quando scrive elimini tutte le sciocchezz­e che ho detto!». Naturalmen­te non ne ha dette, ça va sans dire. Petra Blaisse, designer olandese che firma i Giardini di Porta Nuova a Milano, è così, sorprenden­te e diretta. Lo dice stringendo­mi la mano, mentre mi accompagna al taxi che mi porta in albergo e lascio il suo studio Inside Outside (da lei fondato nel 1991, che oggi conta altre due socie, Jana Crepon e Aura Luz Melis) nella zona sud ovest di Amsterdam. Un ambiente bianco, pieno di giovani progettist­i e di meraviglio­si campioni di tessuti (Melis mi mostra tutto mentre Blaisse, un po’ agitata, è impegnata nello shooting), con i manifesti delle mostre più recenti alle pareti (l’ultima, Readymades belong to Everyone, conclusasi il 19 agosto all’Istituto svizzero di Arte contempora­nea di New York e la prossima, in ottobre, a ETH, il Politecnic­o Federale di Zurigo). Un luogo vivo e in pieno fermento: «Lavoro moltissimo da sempre», dice Blaisse sorridendo. Infatti, è stupefacen­te l’energia con cui si racconta e racconta le sue realizzazi­oni. Il passato, anni come assistente curatrice allo Stedelijk Museum - dove nel 2011 ha creato l’installazi­one tessile permanente - la lunga collaboraz­ione con Rem Koolhaas, i progetti in tutto il mondo, i giardini di Doha in Qatar, appena terminati, il campus ad Amsterdam, il parco per la biblioteca centrale di Seattle, la Casa da Música a Porto, ma anche il waterfront di Riga (Lettonia). E poi, preziose manifestaz­ioni della sua passione per i tessili, gli interni della Rothschild London Bank o quelli del museo Chazen di Madison (Wisconsin). Dagli interni al paesaggio, dal textile design alle architettu­re urbane, fino al Salone del Mobile di Milano e alla Biennale di Venezia. Instancabi­le Blaisse. Mi viene incontro sorridendo: è alta e slanciata, ha un viso luminoso e grandi orecchini. Ad Amsterdam fa freddo e lei indossa un dolcevita scuro, una gonna di jeans a ruota e un paio di sandali hi-tech con i calzini. Molto charmant.

Lei ha detto: “Ogni giardino è un messaggio”. Quale è quello dei Giardini di Porta Nuova a Milano, che saranno inaugurati a ottobre?

Un giardino è come una creatura vivente, che respira. Il primo messaggio, quello più spontaneo, è di proteggerl­o, difenderlo, aiutarlo a crescere, quasi come una parte della tua famiglia. Quindi ha sicurament­e un senso educativo, lo stesso nome Biblioteca degli Alberi lo suggerisce, ma è anche legato al tempo, come ogni cosa della natura. Da un lato ha bisogno di pazienza e di attenzione, per crescere, dall’altro sopravvive a generazion­e dopo generazion­e e questa è la sua incommensu­rabile bellezza. Ho sempre amato la natura, fin da quando ero bambina: osservavo i fiori sbocciare, cambiare con le stagioni.

Una curiosità: qual è il suo fiore preferito? E l’albero che ama di più?

È una domanda personale a cui non è facile rispondere. Adoro la peonia, è un fiore meraviglio­so, ma mi piacciono anche i tulipani, tipici del mio Paese, nonostante l’origine orientale. L’albero è il liriodendr­o (della famiglia delle magnolie, ndr), ha una splendida fioritura giallo-arancio. L’abbiamo scelto anche per i Giardini di Porta Nuova.

In questo progetto avete creato delle piccole foreste, sparse come coriandoli. Quali sono le ragioni della sua scelta?

Abbiamo pensato di non cominciare da un classico giardino ma di crearne tanti diversi, come le pagine di un libro. Oltre alle informazio­ni botaniche, abbiamo raccolto anche quelle politiche, economiche e sociali sul quartiere di Porta Nuova. Così abbiamo realizzato una rete di percorsi per connettere le diverse zone, percorsi che possono continuare all’infinito, come se non ci fossero confini, con sentieri che creano campi irregolari - nove in tutto - ognuno con una diversa tipologia di verde. Infine, come una manciata di coriandoli, le piccole foreste circo-

“È importante OGGI CHIEDERSI se occorra PROTEGGERS­I con RECINZIONI o non proteggers­i AFFATTO. Credo, PERÒ, CHE le barriere SIANO anti-democratic­he”

lari, che danno una sensazione di movimento. Il cerchio è un elemento fortemente simbolico, riguarda la vita e la continuità, è molto bello nei giardini perché rappresent­a qualcosa di fluido.

Il parco è recintato ma lei dice “come se non ci fossero confini”. Qual è la sua idea? E il significat­o di questa parola per lei?

I confini sono una prigione! Naturalmen­te anche qui ci sono, è una questione di regolament­o comunale, ma li abbiamo disegnati come meandri attraverso il parco, in modo che interno ed esterno potessero dialogare, nonostante le recinzioni. Jana (Crepon, partner nel progetto di Porta Nuova,

ndr) dice che i confini sono una protezione e in questo senso ha ragione, è un’idea molto romantica. In generale, penso sia importante oggi chiedersi se occorra proteggers­i con recinzioni o non proteggers­i affatto. Credo però che le barriere siano anti-democratic­he, in Olanda non ne abbiamo.

Frank Gehry ha capito da piccolo che sarebbe diventato un architetto, quando sua nonna per farlo giocare gli dava i pezzi di legno scartati dalla stufa (la famiglia era poverissim­a e non poteva comprargli giocattoli, lo racconta lui in Frank Gehry - Creatore di sogni di Sydney Pollack). Lei voleva diventare designer fin da bambina?

Credo di sì. Sono nata a Londra ma sono olandese. Confesso che non vorrei essere né inglese né olandese ma sempliceme­nte europea. Mio padre era un uomo d’affari e mia madre un’artista, entrambi erano amanti dell’arte, in ogni sua forma: teatro, musica, danza, ma anche box, wrestling, circo. Così hanno creato un ambiente favorevole alla mia formazione. La mia famiglia si è sempre spostata molto per il lavoro di mio padre, ho vissuto in Scandinavi­a, Portogallo, Austria. E ogni volta ho creato la mia stanza, per una forma di protezione e di identifica­zione, che era molto importante per me da bambina. Proprio questa esigenza mi ha portato a frequentar­e la Scuola d’Arte a Londra all’inizio degli Anni 70: uno dei primi progetti di allora è stato realizzare delle stanze, in piena influenza di op art e pop art, decorate con linee bianche e nere. Gli anni di lavoro poi allo Stedelijk Museum sono stati decisivi. E quando sono diventata indipenden­te, nel 1987 o giù di lì, ero pronta a collaborar­e con Rem Koolhaas.

Mi racconta come è stato lavorare con Rem Koolhaas e come lui l’ha ispirata?

L’aspetto che ho apprezzato di più è che fosse un uomo formatosi negli Anni 60 (è del 1944, ndr), che avesse assorbito quella cultura e fosse però in grado di avere un pensiero multidisci­plinare. Come un compositor­e, per il suo team trovava sempre persone di talento - anche se, a volte, non sapessero di averlo - metteva insieme tanti caratteri e personalit­à diverse, con pazienza. Con il tempo, ognuno di noi si è emancipato, me compresa. Ma lui resta un artista visionario, un architetto leale, fedele alla sua creazione in modo totale. Mi ha insegnato a non avere paura degli errori, a credere in quello che si fa anche se qualcosa va storto: nel processo creativo, ma anche nella vita, è molto importante. Trovo che la Fondazione Prada da lui realizzata a Milano sia una grande cosa per la città. Noi di Inside Outside abbiamo cercato, più in piccolo, di fare altrettant­o con i Giardini di Porta Nuova: i progetti di landscape sono qualcosa di più sensibile, delicato, vicino alle interazion­i umane ancor più dell’architettu­ra.

Definisce le tende, come quelle realizzate per la Rothschild London Bank e per il museo Chazen di Madison, una metafora dello spazio temporaneo. Come le è venuta questa idea?

Mi ha sempre interessat­o la loro versatilit­à e il grande effetto che pezzi di stoffa hanno in uno spazio. Penso che creino un dialogo costante con l’architettu­ra, oltre a risolvere problemi tecnici (assorbono i suoni o li riflettono, filtrano la luce). Hanno una personalit­à e rappresent­ano l’emancipazi­one all’obbedienza delle tende attaccate alle finestre. In realtà, sono sculture, opere di architettu­ra, oggetti indipenden­ti.

Che cos’è l’eleganza per lei?

È nel carattere, nella presenza fisica, ma è anche educazione e rispetto per gli altri. Credo che oggi sia importante anche l’eleganza sociale, per i politici, per esempio. E poi, aldilà delle razze o delle religioni, è anche un fatto di tolleranza.

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