DI BICICLETTE E DI TRENI
Quando il gioco si fa duro... non tutti sono in grado di giocare, anche solo per sopravvivere
Il treno è sette anni più vecchio della bicicletta, o meglio della draisina, la nonna della bicicletta che conosciamo. Sembra impossibile, ma è così. E sembra impossibile perché il treno, almeno all’inizio, sfruttava la forza del vapore, mentre la bicicletta quella muscolare. A nessuno però era venuto in mente di inventarla, e così prima è arrivato il treno e poi, anni dopo, la bicicletta
Il treno e la bicicletta sono probabilmente, anzi quasi senza dubbio, i migliori mezzi di trasporto che la mente umana abbia mai generato. Almeno per soddisfazione di chi li utilizza, almeno per efficacia.
Eppure treno e biciclette sono stati nemici, arcinemici, soprattutto quando la bicicletta è diventata un mezzo non solo di trasporto ma anche di competizione, quando insomma si pedalava non soltanto per spostarsi ma anche per arrivare primi in un luogo dove uno striscione e una linea sull’asfalto (o sulla terra battuta) erano stati per convenzione, o per scelta di qualcuno, considerati fine di una corsa.
«Dannati a voi, uomini di infimo spirito, mezzi uomini senza dignità, farabutti incapaci di lealtà e amor proprio. Dannati voi che evitate la fatica e preferite la comodità e che alle pedalate preferite i vagoni di un treno. Non siete degni di rispetto». Era il 1896 quando l’uomo che inventò sette anni più tardi il Tour de France, Henri Desgrange, dal prato del Vélodrome de l'Est, che all’epoca dirigeva, disse queste parole. Ce l’aveva con tre corridori che vennero pizzicati scendere dal treno alla stazione di Meaux per rimettersi sul percorso di gara del Grand Prix de l'Est, la corsa che dal Vélodrome de l'Est, a Charenton, partiva e al Vélodrome de l'Est si concludeva dopo circa duecentocinquanta chilometri e aver toccato Coulommiers, Sablonières, Charly-sur-Marne e appunto Meaux. I tre vennero squalificati. Non bastò.
L’anno dopo furono squalificati in quattro per il medesimo motivo. Uno, il primo che Henri Desgrange vide scendere dal treno e riuscì a raggiungere finì all’ospedale con il naso rotto. Non era uomo dalle maniere gentili Henri Desgrange, oltre a essere noto per il suo caratteraccio e i suoi attacchi d’ira.
È mica storia solo ottocentesca quella dei corridori sui treni. Le testimonianze di squalifiche per “utilizzo di mezzi a rotaia non consentiti” arrivano fino agli Anni '40 del Novecento. L’ultima, o almeno l’ultima rintracciata da Biciclette d’Epoca, risale al 1949 in una corsa francese: il Tour de Haute-Savoie.
«Dannati voi che evitate la fatica e preferite la comodità», diceva Henri Desgrange. Dannati sì, ma per miseria e per sfinimento. Tutti derelitti dell’ordine d’arrivo, tutti carne da cannone per posizioni di rincalzo. Che a prendere il treno per vincere, almeno negli annali, c’è stato solo il caso di Maurice Garin, Lucien Pothier, César Garin e Hippolyte Aucouturier al Tour de France del 1904. Caso peraltro nemmeno troppo chiaro. Henri Desgrange li squalificò mesi dopo la fine di quella Grande Boucle accusandoli di aver fatto cento chilometri in treno: un suo amico disse di averli visti in stazione. I quattro confermarono di essere stati in quella stazione – avevano assalito il bar in cerca di acqua, dissero – ma negarono di essere saliti sul treno. E a nulla servì la testimonianza di due persone che li avevano visti ripartire: Desgrange si fidò del suo amico e squalificò con infamia i quattro.
Nel 1910, nella quarta edizione della Milano-Sanremo, una delle più fredde edizioni della Classicissima – i corridori si presero la grandine nel pavese, la neve sul Passo del Turchino e la pioggia in Riviera – tanto che dei sessantatré partiti arrivarono in sette, Piero Lampaggi venne squalificato per aver percorso una cinquantina di chilometri in un vagone merci. Lui confermò di aver preso il treno: «Faceva freddo, i primi erano imprendibili, non mi sentivo né le gambe né le mani, cosa dovevo fare? Morire?», pare che fu la giustificazione.
Un povero cristo del pedale Piero Lampaggi. Come lui in tanti. Gente che faceva il corridore perché era un modo come un altro per mettere insieme il pranzo con la cena, che se è vero che la bicicletta è passione e il ciclismo è passione professionale, mica tutti ne hanno abbastanza per sopportare l'enormità di privazioni che il ciclismo richiedeva e richiede. Poveri cristi che non prendevano un treno per vincere, ma solo per arrivare all’arrivo.
Il migliore fu però Thierry Leec, oscuro figuro del pedale dimenticato dalla storia del ciclismo ma capace di restare in quella della Paris-Brest-Paris. Era il 1901 e tre giorni dopo la fine della corsa, o meglio dell’arrivo dell’ultimo corridore, Thierry Leec si presentò nella redazione de L’Auto-Vélo e pretese di parlare con il direttore Henri Desgrange. Gli disse di essere arrivato solo poche ore prima a Parigi e di volere il buono pasto che gli era stato promesso. Henri Desgrange gli rispose che la corsa era terminata tre giorni prima e di andarsene. Thierry Leec fece cenno di no con la testa: lui non se ne sarebbe andato. Non prima almeno di aver ricevuto il suo buono pasto e già che c’era pure i soldi per il biglietto del treno che aveva dovuto prendere per arrivare a Parigi. «Certe gare non sono gare, sono un massacro: si dovrebbe vergognare di organizzare certe robe. Io comunque a Parigi sono arrivato e mi aspetto di ricevere quello che devo ricevere, nulla di più nulla di meno». Leggenda narra che si sia accampato in redazione per tre giorni e che alla fine Henri Desgrange abbia ceduto. Non è stato possibile però verificare la veridicità dell’informazione. Noi ci fidiamo, fatelo anche voi.
Quando si parla di ciclismo su pista, il pensiero corre subito alle indiavolate sfide tra due campioni, ai leggendari tentativi del Record dell'Ora, alle spettacolari giostre che sono l'Omnium, l'Americana, le Sei Giorni. C'è però una specialità molto particolare, vecchia di più di un secolo, che affonda le proprie origini nelle nebbie del tempo. Una specialità la cui storia - per dirla anzi contraddirla con
De Gregori - pur essendo d'altri tempi non avrebbe mai potuto esistere prima dell'invenzione del motore: parliamo delle gare cosiddette “dietro motore”, ovvero quelle in cui i corridori sfrecciavano in scia a una motocicletta raggiungendo velocità anche vicine ai 100 km/h!
L'aria, infatti, è un gas che risponde alle regole della fluidodinamica, e come tale si comporta. Avere davanti a sé un altro veicolo che la “taglia” la rende meno densa, più attraversabile, e questo permette a chi segue di procedere con meno fatica o - a parità di sforzo - a maggiore velocità. È il principio per cui i corridori si danno il cambio a tirare, insomma, o che utilizzano quando fanno i famosi e spettacolari “ventagli” per cercare di fare meno fatica quando attraversano dei campi di vento.
Forti di questa teoria, le gare dietro motore - che oggi sono quasi scomparse - permettevano agli intrepidi corridori di girare vorticosamente in pista su distanze anche lunghe a velocità medie notevolissime, entrando in simbiosi con “l'allenatore”, ovvero colui che guidava la moto. Il nome che la storia ha consegnato a questi intrepidi del pedale è “stayer”, un termine mutato dall'ippica in qualche modo traducibile dall'inglese come “colui che mantiene la posizione”. Nel caso equino si trattava di cavalli che partecipavano a logoranti gare di lungo percorso. In quello ciclistico, di corridori che inforcavano il proprio cavallo d'acciaio per sfrecciare dietro una moto.
CAVALLI SI NASCE
Il primo velodromo al mondo è stato quello di Brighton, nel 1877, mentre in Italia abbiamo dovuto aspettare il 1895 per l'inaugurazione dell'Umberto I di Torino. Nel frattempo, nel 1892, si tennero a Londra i primi Campionati del Mondo di ciclismo su pista, che per molti anni - fino cioè al 1927, come abbiamo raccontato su BE50 e 51 - rimasero le uniche kermesse di valore mondiale, perché il ciclismo su strada era considerato un figlio minore di quello all'interno dei velodromi o dei circuiti in generale. Dobbiamo immaginare una società molto diversa da quella attuale, dove erano i giornali a raccontare gli eventi sportivi che andavano nascendo, e non la televisione o la radio, per cui il privilegio di poter assistere dal vivo alle gare - di qualsiasi tipo - rendeva le strutture aperte al pubblico il teatro principe di qualsiasi sfida, attirando sponsor in cerca di visibilità e organizzatori pronti a rivendere biglietti per denaro sonante. I velodromi erano quindi luoghi di spettacolo, alla moda, in cui si davano appuntamento gli appassionati delle gare con mogli e fidanzate al seguito, e per decenni catalizzarono l'attenzione di chi voleva assistere a kermesse sempre più appassionati tra quei “cavalli meccanici” che erano considerati i ciclisti in sella alle proprie biciclette a scatto fisso, in fondo non così diverse da quelle attuali.
Fu in questo contesto che si cercarono forme di spettacolo sempre nuove ed elettrizzanti, tra cui - appunto - quella di aumentare la velocità dei corridori facendoli gareggiare dietro altri mezzi. Inizialmente furono dei tandem - alcuni addirittura delle “quintuplette”! - che permisero per esempio al londinese J.
W. Stocks, durante un evento pubblicitario della Dunlop, di staccare il 27 settembre 1897 il record di 52,492 km percorsi in un'ora. Per fare un paragone, quello di un solo corridore senza aiuti, all'epoca, era detenuto dal belga Oscar Van Den Eynde con 39,240 km.
Contestualmente, e non di rado con sovrapposizioni temporali di ogni tipo, nacquero le gare dietro motore, dall'alto livello di adrenalina, la prima delle quali pare si tenne a Buffalo, nello stato di New York, nel velodromo cittadino: correva l'anno 1891. La motocicletta era stata inventata da Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach solo qualche anno prima, nel 1895, e la cosiddetta “metamorfosi meccanica” che avrebbe portato alla nascita delle moto come le conosciamo oggi doveva ancora fare il proprio corso. Le moto utilizzate, quindi, erano normali moto commerciali, difficilmente definibili “di serie” per via del carattere ancora pionieristico di quei mezzi, talvolta messi insieme da temerari meccanici locali.
Le gare dietro motore ebbero subito un grande successo, e nel giro di pochi anni passarono dagli Stati Uniti alla cara vecchia Europa. Da qui la moda di queste competizioni dilagò per circa quarant'anni, raggiungendo il proprio acme negli Anni '20. Non mancarono anche esempi di gare in cui i corridori pedalavano dietro un'auto, tra cui vale la pena di ricordare le edizioni della Bordeaux-Parigi dal 1897 al 1899, per circa 600 km, cosa che la gara francese avrebbe ripetuto diverse altre volte nel corso della propria storia.
Ovviamente, non mancarono fin da subito anche gare di livello internazionale. Nel 1893, a Chicago, si tennero i primi Campionati del Mondo UCI di
mezzofondo dietro motore per dilettanti, dove Laurens Meintjes, che rappresentava lo stato sudafricano del Transvaal, oggi scomparso, fu incoronato primo re degli stayer davanti al tedesco Albrecht e allo statunitense Ulbricht. I professionisti iniziarono a gareggiare nel 1895 a Colonia, in Germania, con l'affermazione del britannico Jimmy Michael davanti al belga Henri Luyten e al tedesco Hans Hofmann. Primo italiano ad affermarsi tra i professionisti fu Elia Frosio, che vinse il titolo mondiale dietro motori nel '46 e nel '49, oltre che quello italiano dal 1946 al 1950. I Mondiali si tennero per oltre un secolo, fino al 1994, con il tedesco Carsten Podlesch ultimo campione riconosciuto. Di lì in avanti, la UCI non tenne più tali competizioni.
MOTO PERSONALIZZATE
I mezzi utilizzati all'inizio, ovviamente, erano molto differenti da quelli contemporanei, e variavano da semplici ciclomotori a pedali, detti moped,a motociclette di grossa cilindrata, da 650 cc e oltre, in grado di mantenere facilmente e per un lungo periodo la velocità necessaria a tagliare l'aria al ciclista che seguiva e ad accelerare gentilmente. All'inizio era proprio la scarsa potenza dei veicoli a motore uno dei limiti più grandi, dato che faticavano a raggiungere i 50 km/h. Con il tempo vennero introdotte nuove regole e nuovi accorgimenti. I parabrezza, per esempio, furono vietati già a partire dal 1904, mentre venne aggiunto nella parte posteriore della moto un rullo in grado di disinnescare eventuali contatti con il corridore che seguiva, evitando per quanto possibile le cadute, che erano comunque frequentissime.
Con l'aumentare della velocità, infatti, aumentarono anche gli incidenti. Lo statunitense Harry Elkes, per esempio, morì a soli 25 anni il 30 maggio 1903 a causa dello scoppio di uno pneumatico mentre viaggiava alla considerevole velocità di 100 km/h nel Charles River Track di Cambridge, in Massachusetts: le ferite riportate nella caduta gli furono fatali. George Leander, nel 1904 prima di una gara al Parco dei Principi, dichiarò che
“solo gli incapaci si fanno uccidere”, ma morì 36 ore dopo a causa di un incidente di gara. Nacquero mostri meccanici biposto da 2400 cc che dettavano il passo ai ciclisti in maniera pericolosissima.
Nel 1920, per porre fine al caos, la UCI stabilì delle regole ferree per le moto, che vennero fatte applicare in maniera rigida soprattutto in Germania, dove le gare dietro motore erano popolarissime. Venne anche stabilita una distanza minima a cui il corridore doveva stare, definita appunto dal rullo posteriore.
Un tentativo di standard motociclistico venne introdotto poco prima della Seconda Guerra Mondiale, quando nacque un mezzo specificatamente pensato per le gare dietro motore, il cosiddetto Derny. Il primo esemplare, chiamato Entraineur (Allenatore) o Bordeaux-Paris uscì dalla Roger Derny et Fils di Avenue de St Mandé, a Parigi, nel 1938. Era poco più di una semplice bicicletta con un serbatoio di benzina sul manubrio e il motore sottocanna, ma divenne in breve tempo il modello di riferimento per questo tipo di gare. Era dotato sia di motore a scoppio a due tempi da 98 cc sia di pedali, come si conveniva ai moped, con un rapporto tra corona e pignone di 71 a 11 denti. Questa combinazione permetteva un equilibrio perfetto nelle accelerazioni e nelle decelerazioni, che avvenivano seguendo il codice internazionale di comunicazione tra lo stayer e l'allenatore. Un codice a gesti, dato che i due potevano anche parlare lingue diverse. L'azienda fallì nel 1957, dopo aver lanciato uno sfortunato modello chiamato Taon, per poi provare un rilancio negli Anni '70 con un'altra proprietà. Il termine Derny, comunque, è tutt'ora utilizzato per indicare le moto del dietro motore, per le gare che ancora si tengono, ormai pochissime e limitate in gran parte al Keirin, di cui potete leggere in queste pagine un approfondimento.
RECORD E CARATTERISTICHE
Pedalare dietro motore ha portato a record pazzeschi, con velocità abbastanza irrealistiche se pensiamo al fatto che sono state staccate a bordo di una bicicletta. Il 12 ottobre 1950, Karl-Heinz Kramer stabilì il record mondiale di velocità assoluta dietro una motocicletta con 154,506 km/h sul Grenzlandring. Ancora più incredibile fu il record del francese José Meiffret, che arrivò a 204,73 km/h dietro una Mercedes-Benz 300 SL su un'autostrada a Friburgo, in Germania, il 16 luglio 1962 (ne abbiamo parlato su BE36). La sua bicicletta aveva una corona da 130 denti e cerchi in legno. Fred Rompelberg, invece, utilizzando un dragster con un grande parabrezza come pacer, raggiunse i 268,831 km/h sulle Bonneville Salt Flats il 15 ottobre 1995. Limiti umani ampiamente superati.
Nel rarissimo libro “Correre in pista”, il leggendario Guido Costa, DS della Nazionale Italiana di ciclismo su pista quasi ininterrottamente dal 1951 al 1976, illustra alcune specificità di questa specialità oggi caduta largamente in disuso, partendo proprio dalle caratteristiche specifiche della motocicletta, che può partire dal semplice e leggero Derny fino ad arrivare a potenti moto di grossa cilindrata da 750 cc. Tutto è perfettamente regolamentato, dalle dimensioni e dotazioni del mezzo a motore fino all'abbigliamento dell'allenatore e alle caratteristiche della bicicletta da stayer. Molto interessante è il paragrafo “Qualità fisiche e morali dello stayer”, in cui Costa dichiara che per raggiungere livelli d'eccellenza in questa specialità sia necessario praticarla fin da giovanissimi. Inoltre, resistenza notevole e sangue freddo assoluto, viste le difficoltà imposte dalla gara, sono qualità che il grande stayer deve avere, ma che purtroppo non è facile trovare. Costa spiega poi come esistano stayer molto differenti per capacità: alcuni molto veloci e scattanti, altri di grande continuità, cosa che fa sì che non esista un allenamento specifico, dato che ciascuno dovrà concentrarsi nel migliorare gli aspetti in cui è carente. Infine, un capitolo è dedicato all'allenatore, in genere un ex-stayer, che deve entrare in piena sintonia con il corridore e saper gestire con sangue freddo e prontezza il ritmo della gara.