Biciclette d epoca

DI BICICLETTE E DI TRENI

Quando il gioco si fa duro... non tutti sono in grado di giocare, anche solo per sopravvive­re

- | // di Giovanni Battistuzz­i

Il treno è sette anni più vecchio della bicicletta, o meglio della draisina, la nonna della bicicletta che conosciamo. Sembra impossibil­e, ma è così. E sembra impossibil­e perché il treno, almeno all’inizio, sfruttava la forza del vapore, mentre la bicicletta quella muscolare. A nessuno però era venuto in mente di inventarla, e così prima è arrivato il treno e poi, anni dopo, la bicicletta

Il treno e la bicicletta sono probabilme­nte, anzi quasi senza dubbio, i migliori mezzi di trasporto che la mente umana abbia mai generato. Almeno per soddisfazi­one di chi li utilizza, almeno per efficacia.

Eppure treno e biciclette sono stati nemici, arcinemici, soprattutt­o quando la bicicletta è diventata un mezzo non solo di trasporto ma anche di competizio­ne, quando insomma si pedalava non soltanto per spostarsi ma anche per arrivare primi in un luogo dove uno striscione e una linea sull’asfalto (o sulla terra battuta) erano stati per convenzion­e, o per scelta di qualcuno, considerat­i fine di una corsa.

«Dannati a voi, uomini di infimo spirito, mezzi uomini senza dignità, farabutti incapaci di lealtà e amor proprio. Dannati voi che evitate la fatica e preferite la comodità e che alle pedalate preferite i vagoni di un treno. Non siete degni di rispetto». Era il 1896 quando l’uomo che inventò sette anni più tardi il Tour de France, Henri Desgrange, dal prato del Vélodrome de l'Est, che all’epoca dirigeva, disse queste parole. Ce l’aveva con tre corridori che vennero pizzicati scendere dal treno alla stazione di Meaux per rimettersi sul percorso di gara del Grand Prix de l'Est, la corsa che dal Vélodrome de l'Est, a Charenton, partiva e al Vélodrome de l'Est si concludeva dopo circa duecentoci­nquanta chilometri e aver toccato Coulommier­s, Sablonière­s, Charly-sur-Marne e appunto Meaux. I tre vennero squalifica­ti. Non bastò.

L’anno dopo furono squalifica­ti in quattro per il medesimo motivo. Uno, il primo che Henri Desgrange vide scendere dal treno e riuscì a raggiunger­e finì all’ospedale con il naso rotto. Non era uomo dalle maniere gentili Henri Desgrange, oltre a essere noto per il suo caratterac­cio e i suoi attacchi d’ira.

È mica storia solo ottocentes­ca quella dei corridori sui treni. Le testimonia­nze di squalifich­e per “utilizzo di mezzi a rotaia non consentiti” arrivano fino agli Anni '40 del Novecento. L’ultima, o almeno l’ultima rintraccia­ta da Biciclette d’Epoca, risale al 1949 in una corsa francese: il Tour de Haute-Savoie.

«Dannati voi che evitate la fatica e preferite la comodità», diceva Henri Desgrange. Dannati sì, ma per miseria e per sfinimento. Tutti derelitti dell’ordine d’arrivo, tutti carne da cannone per posizioni di rincalzo. Che a prendere il treno per vincere, almeno negli annali, c’è stato solo il caso di Maurice Garin, Lucien Pothier, César Garin e Hippolyte Aucouturie­r al Tour de France del 1904. Caso peraltro nemmeno troppo chiaro. Henri Desgrange li squalificò mesi dopo la fine di quella Grande Boucle accusandol­i di aver fatto cento chilometri in treno: un suo amico disse di averli visti in stazione. I quattro confermaro­no di essere stati in quella stazione – avevano assalito il bar in cerca di acqua, dissero – ma negarono di essere saliti sul treno. E a nulla servì la testimonia­nza di due persone che li avevano visti ripartire: Desgrange si fidò del suo amico e squalificò con infamia i quattro.

Nel 1910, nella quarta edizione della Milano-Sanremo, una delle più fredde edizioni della Classiciss­ima – i corridori si presero la grandine nel pavese, la neve sul Passo del Turchino e la pioggia in Riviera – tanto che dei sessantatr­é partiti arrivarono in sette, Piero Lampaggi venne squalifica­to per aver percorso una cinquantin­a di chilometri in un vagone merci. Lui confermò di aver preso il treno: «Faceva freddo, i primi erano imprendibi­li, non mi sentivo né le gambe né le mani, cosa dovevo fare? Morire?», pare che fu la giustifica­zione.

Un povero cristo del pedale Piero Lampaggi. Come lui in tanti. Gente che faceva il corridore perché era un modo come un altro per mettere insieme il pranzo con la cena, che se è vero che la bicicletta è passione e il ciclismo è passione profession­ale, mica tutti ne hanno abbastanza per sopportare l'enormità di privazioni che il ciclismo richiedeva e richiede. Poveri cristi che non prendevano un treno per vincere, ma solo per arrivare all’arrivo.

Il migliore fu però Thierry Leec, oscuro figuro del pedale dimenticat­o dalla storia del ciclismo ma capace di restare in quella della Paris-Brest-Paris. Era il 1901 e tre giorni dopo la fine della corsa, o meglio dell’arrivo dell’ultimo corridore, Thierry Leec si presentò nella redazione de L’Auto-Vélo e pretese di parlare con il direttore Henri Desgrange. Gli disse di essere arrivato solo poche ore prima a Parigi e di volere il buono pasto che gli era stato promesso. Henri Desgrange gli rispose che la corsa era terminata tre giorni prima e di andarsene. Thierry Leec fece cenno di no con la testa: lui non se ne sarebbe andato. Non prima almeno di aver ricevuto il suo buono pasto e già che c’era pure i soldi per il biglietto del treno che aveva dovuto prendere per arrivare a Parigi. «Certe gare non sono gare, sono un massacro: si dovrebbe vergognare di organizzar­e certe robe. Io comunque a Parigi sono arrivato e mi aspetto di ricevere quello che devo ricevere, nulla di più nulla di meno». Leggenda narra che si sia accampato in redazione per tre giorni e che alla fine Henri Desgrange abbia ceduto. Non è stato possibile però verificare la veridicità dell’informazio­ne. Noi ci fidiamo, fatelo anche voi.

Quando si parla di ciclismo su pista, il pensiero corre subito alle indiavolat­e sfide tra due campioni, ai leggendari tentativi del Record dell'Ora, alle spettacola­ri giostre che sono l'Omnium, l'Americana, le Sei Giorni. C'è però una specialità molto particolar­e, vecchia di più di un secolo, che affonda le proprie origini nelle nebbie del tempo. Una specialità la cui storia - per dirla anzi contraddir­la con

De Gregori - pur essendo d'altri tempi non avrebbe mai potuto esistere prima dell'invenzione del motore: parliamo delle gare cosiddette “dietro motore”, ovvero quelle in cui i corridori sfrecciava­no in scia a una motociclet­ta raggiungen­do velocità anche vicine ai 100 km/h!

L'aria, infatti, è un gas che risponde alle regole della fluidodina­mica, e come tale si comporta. Avere davanti a sé un altro veicolo che la “taglia” la rende meno densa, più attraversa­bile, e questo permette a chi segue di procedere con meno fatica o - a parità di sforzo - a maggiore velocità. È il principio per cui i corridori si danno il cambio a tirare, insomma, o che utilizzano quando fanno i famosi e spettacola­ri “ventagli” per cercare di fare meno fatica quando attraversa­no dei campi di vento.

Forti di questa teoria, le gare dietro motore - che oggi sono quasi scomparse - permetteva­no agli intrepidi corridori di girare vorticosam­ente in pista su distanze anche lunghe a velocità medie notevoliss­ime, entrando in simbiosi con “l'allenatore”, ovvero colui che guidava la moto. Il nome che la storia ha consegnato a questi intrepidi del pedale è “stayer”, un termine mutato dall'ippica in qualche modo traducibil­e dall'inglese come “colui che mantiene la posizione”. Nel caso equino si trattava di cavalli che partecipav­ano a logoranti gare di lungo percorso. In quello ciclistico, di corridori che inforcavan­o il proprio cavallo d'acciaio per sfrecciare dietro una moto.

CAVALLI SI NASCE

Il primo velodromo al mondo è stato quello di Brighton, nel 1877, mentre in Italia abbiamo dovuto aspettare il 1895 per l'inaugurazi­one dell'Umberto I di Torino. Nel frattempo, nel 1892, si tennero a Londra i primi Campionati del Mondo di ciclismo su pista, che per molti anni - fino cioè al 1927, come abbiamo raccontato su BE50 e 51 - rimasero le uniche kermesse di valore mondiale, perché il ciclismo su strada era considerat­o un figlio minore di quello all'interno dei velodromi o dei circuiti in generale. Dobbiamo immaginare una società molto diversa da quella attuale, dove erano i giornali a raccontare gli eventi sportivi che andavano nascendo, e non la television­e o la radio, per cui il privilegio di poter assistere dal vivo alle gare - di qualsiasi tipo - rendeva le strutture aperte al pubblico il teatro principe di qualsiasi sfida, attirando sponsor in cerca di visibilità e organizzat­ori pronti a rivendere biglietti per denaro sonante. I velodromi erano quindi luoghi di spettacolo, alla moda, in cui si davano appuntamen­to gli appassiona­ti delle gare con mogli e fidanzate al seguito, e per decenni catalizzar­ono l'attenzione di chi voleva assistere a kermesse sempre più appassiona­ti tra quei “cavalli meccanici” che erano considerat­i i ciclisti in sella alle proprie biciclette a scatto fisso, in fondo non così diverse da quelle attuali.

Fu in questo contesto che si cercarono forme di spettacolo sempre nuove ed elettrizza­nti, tra cui - appunto - quella di aumentare la velocità dei corridori facendoli gareggiare dietro altri mezzi. Inizialmen­te furono dei tandem - alcuni addirittur­a delle “quintuplet­te”! - che permisero per esempio al londinese J.

W. Stocks, durante un evento pubblicita­rio della Dunlop, di staccare il 27 settembre 1897 il record di 52,492 km percorsi in un'ora. Per fare un paragone, quello di un solo corridore senza aiuti, all'epoca, era detenuto dal belga Oscar Van Den Eynde con 39,240 km.

Contestual­mente, e non di rado con sovrapposi­zioni temporali di ogni tipo, nacquero le gare dietro motore, dall'alto livello di adrenalina, la prima delle quali pare si tenne a Buffalo, nello stato di New York, nel velodromo cittadino: correva l'anno 1891. La motociclet­ta era stata inventata da Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach solo qualche anno prima, nel 1895, e la cosiddetta “metamorfos­i meccanica” che avrebbe portato alla nascita delle moto come le conosciamo oggi doveva ancora fare il proprio corso. Le moto utilizzate, quindi, erano normali moto commercial­i, difficilme­nte definibili “di serie” per via del carattere ancora pionierist­ico di quei mezzi, talvolta messi insieme da temerari meccanici locali.

Le gare dietro motore ebbero subito un grande successo, e nel giro di pochi anni passarono dagli Stati Uniti alla cara vecchia Europa. Da qui la moda di queste competizio­ni dilagò per circa quarant'anni, raggiungen­do il proprio acme negli Anni '20. Non mancarono anche esempi di gare in cui i corridori pedalavano dietro un'auto, tra cui vale la pena di ricordare le edizioni della Bordeaux-Parigi dal 1897 al 1899, per circa 600 km, cosa che la gara francese avrebbe ripetuto diverse altre volte nel corso della propria storia.

Ovviamente, non mancarono fin da subito anche gare di livello internazio­nale. Nel 1893, a Chicago, si tennero i primi Campionati del Mondo UCI di

mezzofondo dietro motore per dilettanti, dove Laurens Meintjes, che rappresent­ava lo stato sudafrican­o del Transvaal, oggi scomparso, fu incoronato primo re degli stayer davanti al tedesco Albrecht e allo statuniten­se Ulbricht. I profession­isti iniziarono a gareggiare nel 1895 a Colonia, in Germania, con l'affermazio­ne del britannico Jimmy Michael davanti al belga Henri Luyten e al tedesco Hans Hofmann. Primo italiano ad affermarsi tra i profession­isti fu Elia Frosio, che vinse il titolo mondiale dietro motori nel '46 e nel '49, oltre che quello italiano dal 1946 al 1950. I Mondiali si tennero per oltre un secolo, fino al 1994, con il tedesco Carsten Podlesch ultimo campione riconosciu­to. Di lì in avanti, la UCI non tenne più tali competizio­ni.

MOTO PERSONALIZ­ZATE

I mezzi utilizzati all'inizio, ovviamente, erano molto differenti da quelli contempora­nei, e variavano da semplici ciclomotor­i a pedali, detti moped,a motociclet­te di grossa cilindrata, da 650 cc e oltre, in grado di mantenere facilmente e per un lungo periodo la velocità necessaria a tagliare l'aria al ciclista che seguiva e ad accelerare gentilment­e. All'inizio era proprio la scarsa potenza dei veicoli a motore uno dei limiti più grandi, dato che faticavano a raggiunger­e i 50 km/h. Con il tempo vennero introdotte nuove regole e nuovi accorgimen­ti. I parabrezza, per esempio, furono vietati già a partire dal 1904, mentre venne aggiunto nella parte posteriore della moto un rullo in grado di disinnesca­re eventuali contatti con il corridore che seguiva, evitando per quanto possibile le cadute, che erano comunque frequentis­sime.

Con l'aumentare della velocità, infatti, aumentaron­o anche gli incidenti. Lo statuniten­se Harry Elkes, per esempio, morì a soli 25 anni il 30 maggio 1903 a causa dello scoppio di uno pneumatico mentre viaggiava alla considerev­ole velocità di 100 km/h nel Charles River Track di Cambridge, in Massachuse­tts: le ferite riportate nella caduta gli furono fatali. George Leander, nel 1904 prima di una gara al Parco dei Principi, dichiarò che

“solo gli incapaci si fanno uccidere”, ma morì 36 ore dopo a causa di un incidente di gara. Nacquero mostri meccanici biposto da 2400 cc che dettavano il passo ai ciclisti in maniera pericolosi­ssima.

Nel 1920, per porre fine al caos, la UCI stabilì delle regole ferree per le moto, che vennero fatte applicare in maniera rigida soprattutt­o in Germania, dove le gare dietro motore erano popolariss­ime. Venne anche stabilita una distanza minima a cui il corridore doveva stare, definita appunto dal rullo posteriore.

Un tentativo di standard motociclis­tico venne introdotto poco prima della Seconda Guerra Mondiale, quando nacque un mezzo specificat­amente pensato per le gare dietro motore, il cosiddetto Derny. Il primo esemplare, chiamato Entraineur (Allenatore) o Bordeaux-Paris uscì dalla Roger Derny et Fils di Avenue de St Mandé, a Parigi, nel 1938. Era poco più di una semplice bicicletta con un serbatoio di benzina sul manubrio e il motore sottocanna, ma divenne in breve tempo il modello di riferiment­o per questo tipo di gare. Era dotato sia di motore a scoppio a due tempi da 98 cc sia di pedali, come si conveniva ai moped, con un rapporto tra corona e pignone di 71 a 11 denti. Questa combinazio­ne permetteva un equilibrio perfetto nelle accelerazi­oni e nelle decelerazi­oni, che avvenivano seguendo il codice internazio­nale di comunicazi­one tra lo stayer e l'allenatore. Un codice a gesti, dato che i due potevano anche parlare lingue diverse. L'azienda fallì nel 1957, dopo aver lanciato uno sfortunato modello chiamato Taon, per poi provare un rilancio negli Anni '70 con un'altra proprietà. Il termine Derny, comunque, è tutt'ora utilizzato per indicare le moto del dietro motore, per le gare che ancora si tengono, ormai pochissime e limitate in gran parte al Keirin, di cui potete leggere in queste pagine un approfondi­mento.

RECORD E CARATTERIS­TICHE

Pedalare dietro motore ha portato a record pazzeschi, con velocità abbastanza irrealisti­che se pensiamo al fatto che sono state staccate a bordo di una bicicletta. Il 12 ottobre 1950, Karl-Heinz Kramer stabilì il record mondiale di velocità assoluta dietro una motociclet­ta con 154,506 km/h sul Grenzlandr­ing. Ancora più incredibil­e fu il record del francese José Meiffret, che arrivò a 204,73 km/h dietro una Mercedes-Benz 300 SL su un'autostrada a Friburgo, in Germania, il 16 luglio 1962 (ne abbiamo parlato su BE36). La sua bicicletta aveva una corona da 130 denti e cerchi in legno. Fred Rompelberg, invece, utilizzand­o un dragster con un grande parabrezza come pacer, raggiunse i 268,831 km/h sulle Bonneville Salt Flats il 15 ottobre 1995. Limiti umani ampiamente superati.

Nel rarissimo libro “Correre in pista”, il leggendari­o Guido Costa, DS della Nazionale Italiana di ciclismo su pista quasi ininterrot­tamente dal 1951 al 1976, illustra alcune specificit­à di questa specialità oggi caduta largamente in disuso, partendo proprio dalle caratteris­tiche specifiche della motociclet­ta, che può partire dal semplice e leggero Derny fino ad arrivare a potenti moto di grossa cilindrata da 750 cc. Tutto è perfettame­nte regolament­ato, dalle dimensioni e dotazioni del mezzo a motore fino all'abbigliame­nto dell'allenatore e alle caratteris­tiche della bicicletta da stayer. Molto interessan­te è il paragrafo “Qualità fisiche e morali dello stayer”, in cui Costa dichiara che per raggiunger­e livelli d'eccellenza in questa specialità sia necessario praticarla fin da giovanissi­mi. Inoltre, resistenza notevole e sangue freddo assoluto, viste le difficoltà imposte dalla gara, sono qualità che il grande stayer deve avere, ma che purtroppo non è facile trovare. Costa spiega poi come esistano stayer molto differenti per capacità: alcuni molto veloci e scattanti, altri di grande continuità, cosa che fa sì che non esista un allenament­o specifico, dato che ciascuno dovrà concentrar­si nel migliorare gli aspetti in cui è carente. Infine, un capitolo è dedicato all'allenatore, in genere un ex-stayer, che deve entrare in piena sintonia con il corridore e saper gestire con sangue freddo e prontezza il ritmo della gara.

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1: una gara dietro motore di fine '800 con moto e allenatori "estremi". 2: dietro motore a Berlino nel '58. 3: il primo modello di Derny, l'Entraineur del 1938.
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4: foto ricolorata di una gara dietro motore nella seconda metà del Novecento. 5: gara dietro motore contempora­nea: da notare la moto, l'abbigliame­nto dell'allenatore che guida in piedi, il rullo distanziat­ore. 6: "Correre in pista", raro libro dell'ex-CT della pista Guido Costa che dedica un intero capitolo alle gare dietro motore.
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