Quanto ci costavano?
I prezzi delle biciclette in relazione agli stipendi nel corso della storia
Molto spesso, parlando delle biciclette dalla fine dell'Ottocento fino al secondo Dopoguerra, è capitato di mostrare pubblicità dell'epoca in cui era presente il prezzo del mezzo. Un dato interessante, ancora più di valore se riferito al catalogo complessivo, che permette di capire se bicicletta in questione fosse una top di gamma o una primo prezzo. Quello che non è quasi mai possibile capire, invece, è quanto costassero i velocipedi in relazione al costo della vita del periodo, dato che dà la cifra degli sforzi che si dovevano fare per acquistarne una. Un tema che a nostro parere è importante chiarire.
La domanda che dobbiamo farci in estrema sintesi - è: ma la bicicletta era un mezzo elitario o popolare?
La risposta corretta non è sempre la stessa, poiché dipende principalmente a quale epoca si fa riferimento. In questo articolo cercheremo di far comprendere meglio quando la bicicletta era elitaria, quando è divenuta più democratica, quando è divenuta un bene per tutti e quando è divenuta strumento di mobilità per le fasce più povere della popolazione italiana. Per farlo, semplificheremo il tema e faremo riferimento a 4 fasi principali del percorso storico-economico della bicicletta, che per comodità chiameremo la fase pionieristica, la fase utilitaria, la fase popolare e la fase declinante.
FASE PIONIERISTICA
La fase “pionieristica” la potremmo racchiudere temporalmente nel periodo tra 1870 e il 1900, che vedeva l’Italia appena unificata territorialmente ma completamente disomogenea dal punto di vista economicosociale, soprattutto tra Nord e Sud. Un paese oggettivamente arretrato industrialmente rispetto ad altri dove la bicicletta era molto più diffusa, come per esempio Francia e Gran Bretagna, in cui il fenomeno “velocipede” iniziava ad affacciarsi nell’alta società (perlopiù aristocratici), i cui rampolli si sfidavano per sport e per diletto. In questa fase la bicicletta era assolutamente un mezzo elitario, inaccessibile economicamente alla stragrande maggioranza della
popolazione, che aveva ben altri tipi di problemi da affrontare. Questa fase è molto importante perché segna il passaggio della bicicletta da mezzo prettamente sportivo a mezzo anche turistico. Sul finire del secolo, infatti, viene fondato a Milano il TCCI, Touring Club Ciclistico Italiano (poi Touring Club Italiano) che in pochi anni raggiunge migliaia di iscritti. Se si tiene conto che attorno all’anno 1900
la paga di un operaio si aggirava sulle 160 lire mensili mentre la Bianchi più economica, la Modello D, costava circa 400 lire, la risposta al quesito iniziale in questa fase è dunque: la bicicletta era un mezzo elitario.
FASE UTILITARIA
La fase “utilitaria” la potremmo inquadrare nel periodo dell’Italia liberale, grosso modo dal 1900 al
1920, e consegue al processo di industrializzazione economica italiana, con tratti talvolta miracolosi, che vede l’emergere di una borghesia produttrice che si appropria del fenomeno bicicletta elevandolo a simbolo di progresso e modernità in senso utilitario. Attraverso l’uso della bicicletta ci si può muovere davvero liberamente, dove e quando si vuole: è il nuovo mezzo di trasporto. Rapidamente aumenta la produzione interna di biciclette a sostegno della nuova domanda, e aumenta il consenso grazie alle migliorie tecniche apportate alle biciclette, di cui finalmente iniziano a capirsi le potenzialità. Medici, fattorini, vigilanti e persino l’esercito acquistano biciclette con finalità di trasporto. È in questi anni che nasce il Giro d’Italia e i corridori sono i nuovi eroi popolari. In questo periodo le biciclette circolanti nello Stivale passano da poco più di 100.000 a ben oltre 1.000.000, a fronte di una popolazione di 38 milioni di abitanti nel 1920. La bicicletta inizia a diffondersi ma rimane accessibile solo alla classe borghese, residente nel Centro-Nord. Per dare dei dati demografici, c'era circa una bicicletta ogni 20 abitanti al Centro-Nord, una ogni 300 al Sud. Attorno alla fine degli Anni ’10, la paga di un operaio era di circa 300 lire mensili, mentre il prezzo della bicicletta Bianchi Modello P più economica si attestava sulle 500 lire. La risposta al quesito iniziale riferendoci a questa fase sarebbe: non ancora accessibile per tutti, ma senz'altro con più possibilità di diffusione.
FASE POPOLARE
La successiva fase “popolare” potremmo delimitarla più o meno al periodo tra le due guerre mondiali, indicativamente dunque tra il 1920 e il 1945. Negli anni precedenti a questa fase si erano affacciati sul mercato due temibili concorrenti della bicicletta, che alla fine l'avrebbero sopravanzata: l’automobile e la motocicletta. Inutile dire che, per le classi sociali che potevano permettersi la bicicletta nei decenni precedenti, automobile e motocicletta sono i nuovi simboli di progresso e i piloti da corsa, come Tazio Nuvolari, i nuovi eroi. Anche la propaganda fascista vuole l’Italia motorizzata, più veloce e dunque più moderna. Tuttavia, pochi sono gli italiani che possono permettersi una motocicletta, ancora meno quelli che possono affrontare l’acquisto di una automobile. Con la limitata domanda interna, anche l’industria motoristica stenta a espandersi. È proprio in questo periodo che la bicicletta vede un’espansione irripetuta, arrivando a oltre 5.000.000 di velocipedi circolanti alla fine degli Anni '30, di cui un decimo nella sola Milano. Restano irrisolte le gravi disuguaglianze reddituali tra Centro-Nord e Sud, che influiscono notevolmente anche sulla diffusione della bici. Nel 1935 lo stipendio di un operaio si aggira sulle 500 lire, mentre il prezzo della Bianchi Real più economica è di 330 lire. Dunque la risposta al quesito in questo periodo è: la bicicletta non è più un mezzo elitario ma è diventata estremamente popolare.
FASE DECLINANTE
La fase "declinante" la racchiudiamo sostanzialmente negli anni del Secondo Dopoguerra, anche se con notevole distinguo. Negli anni subito dopo la fine del conflitto, l’Italia si ritrova devastata sia infrastrutturalmente sia economicamente. In questo periodo la bicicletta sembra ritrovare una centralità per le famiglie come mezzo di trasporto, un'ambita conquista alla portata di tutti gli italiani. Conquista facilitata da una industrializzazione su larghissima scala nel settore del ciclo, con prezzi per l'epoca abbordabili.
Una conquista che in pochi anni viene velocemente abbandonata in favore dei vecchi nemici motorizzati, che si ripresentano in nuove vesti e con listini sempre più accessibili. Mentre motociclette e automobili aumentano velocemente di numero, la presenza di biciclette passa dai 3.000.000 del 1946 agli 8.000.000 del 1949, per poi cominciare a ridursi progressivamente verso la metà degli Anni '50.
Negli Anni '60 le due ruote a pedali diventano una minoranza sulle strade e tali rimarranno fino ai giorni nostri, nonostante si parli
molto di mobilità sostenibile. È in questa fase che la bicicletta vede il suo apparentemente inesorabile declino, venendo rinnegata ben presto anche dalle fasce meno abbienti della popolazione. Nella prima metà degli Anni ‘50 la paga di un operaio in Italia si attestava a circa 32.000 lire, mentre il prezzo di una Bianchi Topazio era circa 25.000 lire. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri, insomma, la bicicletta è rimasta un mezzo accessibile a tutti, ma il prezzo non è più stato un fattore determinante per la sua diffusione.
La prima maglia azzurra di Mary Cressari... non c’è! Gli viene data quella riciclata da un dilettante che fa la riserva. La sua non era neanche prevista… Siamo ai Mondiali di Salò del 1962. Dopo quei Mondiali nasce ufficialmente in Italia il ciclismo femminile, ma prima che acquisisca (quasi) pari dignità con i maschi passerà parecchio tempo. La Cressari è stata una che ha dato una mano in questo senso, nobilitando con la sua presenza i record, i contratti, la promozione, i regolamenti, la pubblicità e - perché no? - anche l’estetica. Nata in una casa modesta ma più che dignitosa, passa la sua fanciullezza tra i fornelli e la cucina della trattoria di famiglia per poi iniziare a pedalare imitando i due fratelli, dilettanti di buon lignaggio. Si impone subito in un mondo che, come abbiamo detto, è tutto da costruire: poche società, poche corse, tanto scetticismo, discriminazioni nei premi e ironia a volontà.
Come ogni donna della sua epoca, anche Mary ambisce ad avere un marito e a diventare mamma. Conosce Angelo - di nome e di fatto - che, imitando ciò che fece il signor Strada con Alfonsina, non ha reticenze ad acconsentire che, una volta sposata, la moglie continui a gareggiare: aveva compreso precorrendo i tempi che una grande passione non può sopprimerne un’altra, ma ambedue devono convivere. La nascita del figlio Ernesto se da un lato rallenta un po’ la carriera, dall’altra le conferisce nuovi stimoli fino a portarla nel 1972 al Record dell’Ora realizzato a Città del Messico, un mese dopo Merckx, sotto la competente regia di Bonariva e Casola. Rodoni, la Federazione e persino Colnago si accorgono che esiste anche il pedale rosa e finalmente capiscono che porta anche curiosità e risonanza mediatica.
Ma il primato dell’ora non basta alla Cressari. La sua resistenza allo sforzo prolungato e la sua perfetta posizione in bicicletta la portano a siglare anche il record dei 100 chilometri al Vigorelli, sui quei legni che risuonano come uno Stradivari sotto le potenti ed eleganti pedalate della Mary. A questo punto nascono numerosi epiteti: la mammina volante, la Merckx in gonnella, la regina del cronometro, ecc. La sua carriera prosegue sfortunatamente con qualche incidente di troppo, ma grande merito per lei è quello di aver spinto le istituzioni sportive ad alzare oltre i 35 anni il limite per l’agonismo femminile sui pedali, cosa di cui Maria Canins, ma non solo lei, le sarà riconoscente.
Sotto la scorrevole e competente penna del bresciano Paolo Venturini, "La donna dei record" è adesso un libro corredato da un centinaio di fotografie che gettano una luce interessante sulla preistoria del ciclismo femminile, sulla vicenda sportiva e sulla natura di una donna semplice ma determinata, conciliante ma spigolosa, femminile ma anche tosta e coerente. Mary Cressari, la pioniera del moderno ciclismo rosa.