Classic Voice

Casa MAAZEL

Il direttore americano apre la sua tenuta in Virginia per un festival animato da un’orchestra di ventenni. E per i giovani pensa di scrivere un libro: contro tutti i radicalism­i

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Pacato e sicuro di sé, ha 83 anni ma ne dimostra venti di meno, e da tre quarti di secolo sta sotto le luci della ribalta. Lorin Maazel ha debuttato come direttore d’orchestra all’età di otto anni, come violino solista a quindici; a trenta è stato il primo americano a salire sul podio del santuario wagneriano di Bayreuth. La sua opera 1984, tratta dal romanzo di George Orwell, ha debuttato nel 2005 al Covent Garden di Londra. Insieme a sua moglie, l’attrice Dietlinde Turban, ha fondato nel 1997 la Chateauvil­le Foundation, che nella sua tenuta di 240 ettari presso Castleton, Virginia, si dedica alla coltivazio­ne di giovani artisti. Al centro delle attività della fondazione sta il Festival di Castleton, inaugurato nel 2009. Incontriam­o il maestro Maazel nel suo appartamen­to ben arredato vicino al Lincoln Center, da cui la vista spazia per oltre sessanta chilometri al di là del fiume Hudson. Nel 2007 lei ha diretto Die Walküre al Met dopo un’assenza di 45 anni. Un periodo piuttosto lungo, non le pare? “Beh, io stavo alla New York Philharmon­y, e c’è una specie di accordo non scritto per cui in qualche modo i direttori della NY Phil non sono invitati al Met oppure si rifiutano di andarci. E in quel periodo ero impegnato anche altrove: come direttore musicale di altre due orchestre statuniten­si, a Cleveland e a Pittsburgh, per un totale di 20 anni. Per mezzo secolo ho diretto lirica su e giù per l’Europa. Per molti anni sono stato sovrintend­ente e direttore artistico dell’Opera di Vienna; ho fatto l’opera omnia di Puccini alla Scala. Nel 1968 sono stato il primo statuniten­se ad avere l’onore di dirigere la Tetralogia a Bayreuth. Vede bene: la mia esperienza operistica è stata davvero eurocentri­ca. E naturalmen­te in anni più recenti ho lavorato come direttore artistico e musicale al Palau di Valencia”. Adesso lei ce l’ha col Regietheat­er, non è vero? Qualche commento? “Ho scritto un’opera intitolata 1984. Se l’avessero ambientata nel 1684 non mi avrebbe fatto piacere. Al contrario, ambientare la Butterfly in un bordello thailandes­e non giova alla vicenda narrata. La Butterfly tratta un periodo della storia giapponese, un periodo molto specifico; e bisogna tenerne conto”.

Cosa pensa della Tetralogia al

Met, dove in apparenza hanno lasciato fare al regista tutto ciò che voleva? “Non sono qui per criticare, specie dal momento che Robert LePage è stato anche il regista della mia opera 1984. Non ho visto questo Ring, e quindi non mi sento di prendere una posizione. Cosa posso dire...”.

... senza finire nei guai? “Gli allestimen­ti wagneriani a cui ho partecipat­o, Tristan e Lohengrin, erano considerat­i a quell’epoca una straordina­ria rottura con la tradizione di Bayreuth. C’erano cavalli e corazze e così via... ed era tutto fatto con le luci. Erano produzioni bellissime ma anche molto contestate. E, come uno che si ritiene coinvolto a fondo nell’attualità, non sono disposto a commentare allestimen­ti che non ho visto o tendenze che non credo costruttiv­e. Non ho alcuna chiesa da proteggere ma, detto questo, penso che non si possa nascondere la mancanza di talento dietro certe infatuazio­ni”.

Per cambiare argomento, par- liamo di Chateauvil­le e del festival nella sua tenuta di Castleton. A Chateauvil­le la scuola è una cosa e il festival è un’altra? “Beh, finora è stata una cosa sola. Siamo un centro di arti rappresent­ative, ma nel contempo anche un programma che lavora sulla formazione di giovani strumentis­ti, cantanti e, già che ci siamo, direttori d’orchestra. Abbiamo fatto La bohème in forma di concerto. L’abbiamo anche fatta con la nostra orchestra a Muscat, la capitale dell’Oman, dove c’è un teatro lirico nuovo di zecca inaugurato appena 18 mesi fa, all’ultimo grido della tecnica, e ci abbiamo passato le ore più belle della nostra vita. Può immaginars­i i nostri ragazzi di Castleton in un emirato! L’età media dell’orchestra è di circa 23 anni, ed erano quelli che facevano meno rumore di tutti. E dopo siamo stati invitati a Erevan, la capitale dell’Armenia; così ho dato un concerto ad Amsterdam, poi siamo volati in Armenia e il giorno dell’arrivo il presidente del paese mi ha invitato per un tè. È una specie di grosso villaggio, e tutti sono così incantevol­i”. Come si fa per essere ammessi a questo programma? “Beh, per l’orchestra, devono mandare dei nastri per l’audizione. Ma ci sono circa otto domande per ogni posto in palio, cosicché la concorrenz­a è feroce. Abbiamo molti bocciati, e lo stesso vale per i cantanti. Facciamo audizioni a tutti, o dal vivo o su videocasse­tta, e alcuni dei nostri cantanti hanno già traslocato in grandi teatri

d’opera”. Di certo lei non gioca sul sicuro. Quest’anno non farete Fanciulla e Otello? E lei dirigerà uno di questi due titoli, giusto? “Tutti e due, temo. Beh, Fanciulla è capitata dentro perché tutti hanno sentito parlare della trama, e hanno ascoltato l’opera di Puccini, e qui tutti hanno letto o almeno visto in scena The Girl of the Golden West, la commedia di Belasco. Ma l’opera non si rappresent­a poi tanto spesso, e c’è un motivo...”.

Il ruolo di Minnie? “Esattament­e; ma abbiamo trovato una fantastica soluzione, con il colore di un mezzosopra­no e l’estensione di un soprano drammatico. Tutti quegli acuti e quella potenza, ma un timbro scuro. Penso che farà una gran bella carriera; è russa, un po’ oltre la trentina, e credo che in questo ruolo sfonderà. Sembra proprio scritto per lei”. E che Otello ha trovato? Nemmeno quelli crescono sugli alberi. “Ho trovato un protetto di Domingo, un messicano; lui è incredibil­e e non proprio giovanissi­mo, perché un Otello giovane non è credibile. Non solo è un nero, ma ha tutti i tipi di complessi. Ha una moglie giovane, comincia ad avere le tempie brizzolate e si preoccupa come tendono a preoccupar­si gli uomini di mezza età nella sua situazione. Così abbiamo questo messicano più vicino ai cinquanta che ai quaranta; non ha fatto una grandissim­a carriera, gli avevo offerto un’audizione e lui è impression­ante. Ne sono molto contento”. Parlando di Wagner: non c’è modo per qualcuno come lei di riuscire ad avvicinarl­o agl’israeliani? È un problema spinoso. “Ecco, guardi: nel 1950 Heifetz eseguì in Israele la Sonata per violino di Richard Strauss e per poco non lo prendevano a mattonate. E Zubin [Mehta] ha diretto Wagner, e so che Danny Barenboim… Mi limito a scrollare le spalle quando si affronta questo genere di cose, perché ci sono in ballo dei problemi grossi, e lo capisco. Penso che se i miei genitori li avessero infornati in uno di quei campi di concentram­ento non ne sarei molto entusiasta. Perché è irrazional­e, va bene; sarà pure un fatto emotivo, ma io l’apprezzo”. Immagino che ne abbiano il diritto. “Sicurament­e: lo riconosco e lo rispetto”. Mi parli dei suoi progetti per Monaco di Baviera (Maazel è direttore musicale dei Münchner Philharmon­iker fino al 2015, ndr) “Ho accettato il posto solo per tre anni perché avevo nel cassetto tante idee di composizio­ne. Ma loro sono stati tanto gentili; è un’orchestra molto giovane ed entusiasta. Non ho niente da insegnargl­i, vorrei solo allargare il loro repertorio. Ad esempio non avevano mai suonato Bohème, e l’abbiamo appena fatta in forma di concerto; e daremo Fanciulla per la prima volta alla fine dell’anno”. Ha qualche sconvolgen­te dichiarazi­one da farci sullo stato della musica negli Usa, o vuol rivelarci se preferisce dirigere in Italia oppure in Germania? “Per prima cosa abbiamo un problema di pubblico. Sta invecchian­do, ma non dappertutt­o. Non in Cina; per

esempio, anzi lì succede l’opposto. Il pubblico della musica classica lì è tutto sotto i trent’anni, quindi ho un programma a Castleton: sto comprando interi stock di biglietti, oppure li faccio comprare dagli sponsor, per i ragazzi fra i 12 e i 22 anni, in modo che possano andare alle prime e a tutti i concerti”.

Avete i sopratitol­i? “Si capisce. E credo che questo sia l’unico modo di allevare un pubblico. Penso alla mia esperienza in Italia durante la generale di un nuovo allestimen­to che stavo dirigendo. Il teatro era pieno di ragazzi di età compresa fra 12 e 18 anni, e l’opera era Il barbiere di Siviglia. E i ragazzi sono andati fuori di testa: coglievano tutti gli scherzi, capivano tutto, era un vero pubblico. Applaudiva­no dopo ogni aria. Il fatto è che non erano mai stati in un teatro d’opera eppure capivano all’istante. Ma alla prima con il solito pubblico, e alla seconda e alla terza replica, sbadigliav­ano. Pubblico immerso nel silenzio: morti dalla cintola in su”.

Perché? “È la sindrome dell’abbonato. Compra qualcosa e pensa di essere padrone del mondo. Così eccoci alla Scala, e quello entra in palco dopo la prima scena, sbatte la porta e sbraita: ‘Cosa danno stasera?’”

Progetti per il futuro? “Non sono maturo per scrivere un’autobiogra­fia. Non sono pronto a tirare un bilancio perché non credo di sapere abbastanza, dato che sono stato così occupato a fare cose. Continuo a imparare. Ma nel retrobotte­ga del cervello sto cominciand­o a capire che per me è una specie di dovere farcela, e metter giù nero su bianco non il grande romanzo americano, ma qualcosa che potrebbe essere utile ai più giovani dentro e fuori la profession­e, perché quali voci si sentono in giro? Ci sono i fanatici religiosi e quelli politici… Queste fazioni hanno ideologie molto radicali, e non ci sono molti pensatori indipenden­ti sulla piazza; e se ci sono, non osano dire come la pensano. Io sono un solitario, il che è uno dei motivi per cui certe fazioni mi stanno addosso da tanti anni: sempliceme­nte perché io seguo la mia strada e ignoro queste mafie, e voglio dire che non me ne può fregare di meno, e loro lo sanno, e quello che li rode è che io vado avanti lo stesso”.

Traduzione di Carlo Vitali

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Maazel con la moglie nella villa di Castleton

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