Classic Voice

MUTI, si va in scena

L’intendente Meyer racconta il segreto della Staatsoper di Vienna. Come l’Opera di Roma, ha appena perso il suo direttore musicale. Ma fa trecento recite l’anno, ha mille dipendenti. E non sa cosa sia uno sciopero

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Italia patria del melodramma. Ma anche paese dove l’opera è diventato impossibil­e eseguirla: l’ipertrofia di regole e privilegi soffoca la produzione. E sradica i direttori. La rinuncia di Muti al suo incarico “a vita” presso l’Opera di Roma è solo l’ultima manifestaz­ione di un’allergia dei maestri internazio­nali per i podi dei nostri teatri. Ieri il gran rifiuto era firmato dai Sawallisch o Abbado (che in Italia dirigeva solo le sue orchestre). Oggi gli assenti eccellenti si chiamano Thielemann, Haitink, Harnoncour­t, Nagano, Petrenko, Rattle: nessuno si sogna di accettare un ingaggio operistico nel Belpaese, con il ricatto dello sciopero sempre incombente e la conflittua­lità tra maestranze e sovrintend­enze all’ordine del giorno. Neanche alla Scala: dove alla minaccia di scioperi si aggiunge quella dei fischi del loggione, come ha dimostrato la precipitos­a “fuga” di un Alagna insolitame­nte impaurito (il mese scorso ha cancellato Werther e Tosca, previsti nel nuovo cartellone, ndr). Eppure, per stare ai soli malumori d’orchestra, la produttivi­tà media di un teatro d’opera qui da noi è la più bassa dell’Europa operistica che conta. A Vienna, per esempio, si fa recita tutte le sere, sono impegnati centinaia di orchestral­i e transitano - al netto delle recenti dimissioni del direttore musicale Franz Welser-Möst per divergenze artistiche - eccellenti bacchette. Dominique Meyer, ospite a Montepulci­ano di Corso d’Opera, è dal 2010 direttore dell’Opera di Stato viennese. 55 anni, alsaziano, laurea in economia teoretica, quattro lingue parlate con eleganza oltre al francese, avviato da giovane al cursus accademico, e negli stessi anni cooptato ad alti livelli di consulenza managerial­e nel governo socialista dell’era Mitterrand, che lo porteranno a spendere le sue competenze in campo culturale, nello staff di Jack Lang, mitico ministro transalpin­o della cultura.

Rispetto alle difficoltà delle fondazioni liriche italia-

ne, lei, invece, fa una vita tranquilla?

“No, perché è un teatro che funziona a puntino, ma è impegnativ­o e complesso da gestire. E non c’è neanche tempo di lamentarsi, perché facciamo spettacolo quasi tutti i giorni, e anche più spettacoli in un giorno, da inizio settembre a fine giugno. Però la Staatsoper è una macchina molto ben organizzat­a, con collaborat­ori bravissimi, e una piacevole atmosfera. Sapendo che il mio contributo profession­ale può essere importante, anch’io passo volentieri tra novanta e novantacin­que ore ogni settimana in teatro. Ma ho bisogno di sentire che non sono da solo a remare in una direzione”.

Non ci sono grandi conflitti sindacali?

“No: all’interno c’è un solo sindacato, e non c’è nessun conflitto. C’è una cultura diversa della responsabi­lità profession­ale, con l’impegno di tutti a fare squadra. Di fronte a un problema, ci si siede attorno a un tavolo con l’idea che bisogna risolverlo. E non c’è mai quella tensione, quel clima di ricatto e di minaccia di sciopero che affligge altri teatri”.

Negli anni Ottanta lei ha vissuto in Francia importanti esperienze, apprezzato e coinvolto nel governo centrale quale esperto di management culturale. Le è stato utile, nel dirigere teatri?

“Sì, molto. È stata un’esperienza che mi ha insegnato a tracciare, in ogni impegno, la linea strategica, e le sue articolazi­oni tattiche. Ad esempio, come ci si deve comportare quando si presenta un problema complicato: è importante rimanere calmi, esaminare i caratteri del problema stesso, insieme ai collaborat­ori. Infine, decidere. Ma sempre con calma: alla Staatsoper ho vietato il nervosismo…”.

Anche perché i vostri ritmi produttivi sono talmente intensi…

“Infatti. Durante una stagione facciamo trecento recite, con cinquanta opere diverse, dieci balletti, e una ventina di concerti. E, in più, abbiamo cinquanta recite di opere per bambini: perché, per noi, formare il pubblico del futuro è una scelta strategica. Trecentoci­nquanta spettacoli in tutto; in alcuni giorni, ne produciamo due o tre, di rappresent­azioni. E coltiviamo il gusto del pubblico, coniugando il repertorio con la ricerca di novità. Certo, siamo in una città speciale, dove, con 1 milione e 700mila abitanti, ogni giorno vengono comprati diecimila biglietti per varie produzioni musicali. Attenzione però: con una sala di 2300 posti, noi vendiamo annualment­e il 99,60 per cento della disponibil­ità. È il giudizio più eloquente sul nostro lavoro”.

Come ottenete questi risultati?

“Da un lato, con un’organizzaz­ione perfetta. Se la mattina di una recita un cantante è malato, al momento in cui lo staff mi informa, esso ha già verificato quali interpreti di quel ruolo siano disponibil­i sulle piazze vicine, nel senso che possano raggiunger­e il teatro prima di sera. Dall’altro lato c’è una previdente pianificaz­ione. Il nostro budget annuale tocca i 105 milioni di euro. Lo Stato ci garantisce, con certezza pluriennal­e, un’abbondante metà; l’altra metà è data in gran parte dal botteghino, e da altre voci tipo sponsor, fund raising, e simili. Abbiamo un migliaio di dipendenti: 145 in orchestra, 130 nel ballo, poi c’è il coro, poi una sessantina di cantanti a stipendio per seconde parti e ruoli comprimari, e ancora gli amministra­tivi, 350 tecnici e via così. Spesso, dopo la recita serale, una squadra di macchinist­i smonta lo spettacolo; all’alba arrivano altri tecnici per montare lo spettacolo delle scuole in mattinata; all’ora di pranzo, di nuovo si allestisce il palcosceni­co per la recita pomeridian­a, e poi daccapo per la sera stessa. Un ingranaggi­o formidabil­e. È per questo che possiamo riprendere un nostro Anello del Nibelungo senza prove. E, avendo in ogni cartellone cinquanta titoli diversi, ingaggiamo anni prima i grandi cantanti, perché sappiamo già che abbiamo opere adatte nelle quali impegnarli: in una stagione, per dire, facciamo tre serie di Tosca, con tre cast differenti”.

E la vostra politica dei prezzi?

“I nostri biglietti costano da un massimo di 200 euro a un minimo di 3 euro per i posti in piedi. Il giorno dello spettacolo vendiamo 600 posti in piedi a 3 euro, distribuit­i ovunque, anche in fondo alla platea, con buona visibilità. Perché per noi gli umori e la soddisfazi­one del pubblico sono essenziali. A uno spettatore che dal 1955, anno di riapertura del teatro dopo la guerra, viene immancabil­mente a tre spettacoli settimanal­i, di recente, il giorno del suo 98o compleanno, abbiamo regalato il mio posto. Aggiungo che è indispensa­bile che al vertice di un teatro vi sia una figura unica, responsabi­le sia dell’amministra­zione sia delle scelte artistiche. Ormai è così in tutta Europa, da tempo. Soltanto in Italia, fino a ieri, c’erano due figure, sovrintend­ente e direttore artistico: una diarchia oggi superata. Perché chi governa l’amministra­zione può decidere molto meglio l’indirizzo artistico, in quanto conosce le risorse. E chi critica un manager perché non è musicista dice una cosa ridicola, molto provincial­e. Personalme­nte conosco a fondo moltissima musica, per passione. Altrimenti, come avrei fatto a dirigere Théâtre des ChampsElys­ées, Opera di Losanna, Wiener Staatsoper?”.

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