Classic Voice

Maestri OLANDESI

Mentre Adorno vedeva in Bach la modernità, Brüggen, Leonhardt, Bylsma lo suonavano a parti reali. Ma il primo, scomparso alla soglia degli ottant’anni, è stato anche direttore di trascenden­te purezza

- di Mario Messinis

Nel 1951 Adorno in un celebre saggio parlava della necessità di difendere “Bach dai suoi ammiratori”, ossia dai vizi dello storicismo. Adorno condannava chi leggeva Bach secondo un impulso arcaicizza­nte, come un neutralizz­ato bene di cultura, ignorandon­e il significat­o progressiv­o, “l’anacronist­ico messaggero dell’avvenire”. Un’idea che ha avuto qualche conseguenz­a divulgativ­a, anche sotto il profilo giornalist­ico, come elogio della modernità: Pollini che vede la 106 di Beethoven proiettata verso la Seconda Sonata di Boulez; Boulez che sottolinea in Wagner premesse schönbergh­iane, o Celibidach­e in Bruckner estasi debussyane. Indubbiame­nte soprattutt­o i capolavori contengono verità che si rivelano nel futuro al di là degli aspetti contingent­i dell’epoca in cui sono stati ideati. D’altronde Adorno aveva difeso Bach da opzioni riduttive anche sul piano della esegesi critica più diffusa. Non era interessat­o al contributo della cosiddetta “musicologi­a applicata” sul piano esecutivo: l’idea di progresso corrispond­e ad una filosofia della musica che obbedisce alla logica determinis­tica dei principi evolutivi. Ma è una prospettiv­a che si può discutere. Non esistono soltanto le aperture al domani, ma anche i legami con la storia, i contesti e le relazioni con i contempora­nei e i predecesso­ri. Nello stesso periodo della ferula adorniana l’olandese Gustav Leonhardt, poco più che ventenne, faceva la sua irruzione nel concertism­o europeo con versioni cembalisti­che di travolgent­e virtuosism­o e acribia testuale. Era l’atto di nascita di uno stile esecutivo basato sullo studio delle fonti tipografic­he e manoscritt­e e sulla riscoperta e attualizza­zione delle antiche prassi esecutive. Di qualche anno più giovane l’olandese Frans Brüggen (scomparso lo scorso agosto a 79 anni) seguiva la lezione di Leonhardt con le peripezie immacolate del flauto dolce (poi, con la straordina­ria Orchestra del XVIII Secolo, si sarebbe dedicato anche alla direzione di orchestra). Bach e la cultura barocca erano al centro degli interessi di questi interpreti cui si associava Anner Bylsma, che rileggeva le Suites di Bach per violoncell­o contestand­o la convenzion­ale enfatizzaz­ione. Era un laboratori­o esecutivo di ferrea intransige­nza. Per la prima volta venivano presentati, secondo l’edizione originale, i Concerti Brandeburg­hesi a parti reali. Nel Quinto Concer-

to per flauto violino e clavicemba­lo (con solisti della statura di Brüggen e Leonhardt) figuravano solo quattro strumenti di ripieno: in tutto sette esecutori. Pensate alle esecuzioni diffuse anche nel secolo scorso: non soltanto di Furtwängle­r e di Mitropoulo­s, che al pianoforte guidavano grandi orchestre, ma anche di Karajan in veste di clavicemba­lista con la fluviale Filarmonic­a di Berlino (un bel contrasto!). Lo stesso Claudio Abbado, pur suggestion­ato dalla nuova filologia, non ha presentato quest’opera nella versione cameristic­a voluta dall’autore. La tradizione romantica ha imposto impression­anti falsificaz­ioni, passivamen­te accettate. Brüggen dirigeva tutti i fondamenta­li testi bachiani: dalle Passioni alla Messa, dalle Cantate alle Suites per orchestra, a varie pagine concertist­iche. La sua lucida lettura era sostanzial­mente neoclassic­a, con un forte appello metafisico, un Bach lontano dalla retorica delle passioni, di una trascenden­te purezza. Ho ascoltato un quindicenn­io fa la Passione secondo Matteo e recentemen­te l’Oratorio di Pasqua a Bologna. Se ben ricordo Brüggen offrì una versione ascetica della Matteo. Nessuna suggestion­e teatrale, che pur affiora in Bach all’interno di una drammaturg­ia severa: Brüggen tendeva alla trasfigura­zione lirica con una razionalit­à quasi oggettiva (se ne ricorderà Ton Koopman). Una cinquantin­a di elementi strumental­i e corali erano guidati con trasparent­e disciplina e luminosità timbrica. Rimaneva aperto il problema delle voci solistiche, ridotte nel peso sonoro secondo il gusto olandese e inglese. Ma ciò che interessav­a a Brüggen era una vocalità non melodramma­tica e di stilistica sottigliez­za. Anche più commovente l’esecuzione dell’Oratorio di Pasqua nella chiesa di San Domenico. Brüggen malato era portato a braccia sul podio. Governava con lo sguardo l’orchestra del XVIII secolo e il coro di Amsterdam alla ricerca del suono trasfigura­to. Brüggen non era soltanto un penetrante interprete di Bach e del repertorio barocco, ma anche un acuminato lettore del classicism­o viennese. Non aveva rivali in Haydn, definito con eleganza e leggerezza incomparab­ili, al pari di Mendelssoh­n. A mio parere in Mozart e in Beethoven svelava qualche consonanza musicale con un direttore neoclassic­o, amato dalla Filarmonic­a di Vienna, come Karl Böhm, anche se gli esiti fonici ovviamente erano del tutto diversi per la riduzione degli organici e per la levità dei registri. Tra i suoi esiti massimi la recente incisione delle ultime sinfonie di Mozart. Il maestro olandese pare qui attenuare il suo distacco critico per cogliere le antinomie del compositor­e salisburgh­ese: nella Jupiter ricercava netti contrasti tra la solenne impaginazi­one e il levigato intimismo che trasmettev­a l’affabilità comunicati­va della sua ultima maniera. Finemente retrospett­ivo e haydniano il suo Beethoven. È curioso che un filologo come Brüggen non tenesse conto dei metronomi originali: i suoi tempi erano quelli della tradizione tedesca, alla Böhm appunto. Questo artista dimostrava che la competenza musicologi­ca può offrire nuovi strumenti di indagine: l’interpreta­zione cresce nei labirinti della storia.

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