Polifonia EBRAICA
L’ebreo- russo Marc Chagall testimonia la stessa sensibilità aperta al Cristianesimo di Mendelssohn o Meyerbeer. Solo con gli orrori del Novecento l’ebraismo prorompe in Schönberg come grido e inno. E in Bloch e Ullmann dà voce a un problematico isolament
Èrisaputo: la musica ebraica ha radici antiche, antichissime e può vantare una viva presenza tanto ad Oriente, quanto in Occidente, essendo stata la diretta erede delle consanguinee esperienze mesopotamiche e l’antesignana della musicalità cristiana, sacra e profana. Un ruolo che, peraltro, si rovescerà spesso, nel corso dei se-
coli. Segnatamente in Europa. Basti rammentare l’influsso del belcantismo italiano su molta musica sinagogale dalla fine del Seicento a tutto l’Ottocento. Qui, tuttavia, sarà il caso di occuparsi di un orizzonte con una diversa e più accidendata conformazione, come impongono le due, parallele mostre milanesi: Marc Chagall. Una retrospettiva 1908-1985 (aperta al Palazzo Reale fino al 1° febbraio 2015) e Chagall e la Bibbia (ospitata al Museo Diocesano con eguale durata). Già, perché l’ebreo-russo Chagall (1887-1985) ebbe in sorte, pur fra mille difficoltà pratiche, di subito conoscere il fiore della cultura contemporanea, in patria e all’estero: allievo a San Pietroburgo del grande pittore-scenografo Léon Bakst (1867-1924), fu poi amico, a Berlino e in Francia, di scrittori quali Guillaume Apollinaire, André Salmon e Max Jacob, nonché del grande filosofo Ernst Cassirer. Una serie di esperienze e di contatti, inclusa l’accesa rivalità con il “suprematista” Kazimir Malevic (1878-1935), che contribuirà non poco alla crescita spirituale dell’artista entro i confini di un’appassionata “ebraicità” tuttavia transconfessionale: come è provato dalla sua consapevolezza (dal 1912 al 1948 e oltre), secondo la quale era per lui un ricorrente obbligo interiore rappresentare Colui che era stato crocifisso, come la Figura che racchiudeva in sé la storia del popolo d’Israele. Lo si dovrà dunque riconoscere: in questo atteggiamento si manifestano una poetica e una filosofia chagalliana in grado di riversarsi anche, come in effetti avverrà, sia nella immagine pittorica di un violinista in bilico sui tetti di un villaggio russo sia nei due monumentali pannelli murali - Le sorgenti della Musica e Il trionfo della Musica - creati per il foyer principale del Metropolitan Opera al Lincoln Center di New York. Impegni tanto basilari quanto le scenografie e i costumi immaginati dall’artista per i balletti L’uccello di fuoco di Stravinskji e Daphnis et Chloé di Ravel e per le opere Il flauto magico di Mozart e Aleko di Rachmaninov. Da tutto ciò, una domanda che suona: “Nelle opere che si sono citate - e in altre che avremmo potuto menzionare - fino a che punto il personale, rilevante contributo di Chagall fu anche dettato dalla sua sensibilità ebraica?”. Quesito generico e pericoloso, per certi versi, ma al quale si potrà tentare di dare una risposta dopo aver verificato, per converso, se nella storia dell’ebraismo e in quella della musica “forte”, dall’Ottocento al Novecento, vi siano stati compositori israeliti capaci di dare voce agli archetipi della propria stirpe (o “nazione”), oltre che all’individuale intelletto. Con un fuggevole sguardo si comincerà però con il sottolineare che lo sviluppo e le varianti dell’ebraismo che qui si vorranno ricordare principiarono a delinearsi dopo la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C., con la consequenziale, totale rinuncia delle pratiche sacrificali e il parziale abbandono delle offerte primiziali, se non in occasione di talune festività della “nazione”. Mutamenti di costume sanzionati con l’istituzione della più intima liturgia del “Servizio della parola di Dio”. Sarà invece il caso di considerare a parte, completamente a parte, l’orientamento espresso dalla Qabbalah o Kabbala, la corrente gnostica dell’Ebraismo inizialmente fiorita in Spagna e Provenza nel XII secolo, ma che aveva avuto anteriori manifestazioni entro l’ambiente fariseo tra il 450 a.C. e il 70 d.C. Inquadrabile quale disciplina atta a penetrare nel senso riposto delle Sacre Scritture, la Qabbalah potrebbe anche definirsi come una tecnica interpretativa in grado di sviluppare e dominare qualsivoglia permutazione o trasmutazione di lettere e numeri, in ciascun ambito, e con mutuo scambio di significati fra i due regni. Non per nulla, a partire dal XV secolo nascerà e avrà notevole sviluppo un qabbalismo cristiano che avrà fra i suoi cultori, fra gli altri, Giovanni Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa e Paracelso, nonché figure più strettamente legate alla cultura musicale del Cinquecento: Franchino Gaffurio (1451-1522), Francesco Zorzi (Francesco Giorgio Veneto, 14661540), Gioseffo Zarlino (1517-1590). Si potrebbe per di più aggiungere a questo punto che, a partire dai trattatisti che si sono ora ricordati, s’incontreranno abbastanza di frequente, nella successiva storia della musica, compositori cristiani, talvolta sospetti di eresia, o musicisti ebrei, convertiti o meno, che intesseranno con la Qabbalah amorose corrispondenze, magari con la complicità delle sugge-
stioni ermetiche e neoplatoniche. Primo autore del popolo ebreo, pronto a venirci incontro, è Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1849) di solito descritto come un gentile, geniale talento dotato di una ammirevole facilità di scrittura. Giudizio quanto meno restrittivo. Le pagine che scrisse per la liturgia della confessione luterana e buona parte delle sue vigorose composizioni sinfonico-corali ci presentano invece un musicista che aveva saputo bussare alle porte del Mistero interrogandosi, in particolare, sul recondito significato di cui è intrisa la ballata di Goethe, Die erste Walpurgisnacht (“La prima notte di Valpurga”), e celebrando con l’oratorio Elias il tormentato rapporto dell’Uomo con Dio. Non meno enigmatica (e chi lo avrebbe mai detto?) l’iniziale poetica di Giacomo Meyerbeer (1791-1864). Nel 1811, infatti, si era imposto a Berlino con la promettente cantata Gott und die Natur (“Dio e la Natura”), suscitando un comprensivo, vivo interesse in diversi circoli culturali, sia illuministici sia romantici. Ma poi si lascerà sedurre da altre, difformi, esigenze, pur mantenendo e approfondendo un certo magistero nell’ideazione delle pagine corali e mostrando, nella scelta dei libretti, una personale propensione a parteggiare per i vinti, i perseguitati. Discorso a parte per Jacques Offenbach ( 1819- 1880), figlio di un cantore di una sinagoga tedesca e come tale accusato, dopo la guerra franco- prussiana del 1870, d’aver voluto corrompere la Francia con scandalose operette, in modo che il nemico d’oltre Reno potesse successivamente trovarsi di fronte a
Marc Chagall: “La mucca con l’ombrello” e, alle pagine 52 e 53, “Il trionfo della musica” e “Il violinista verde”
generazioni di giovani francesi debosciati. Accuse stupide e aleatorie? Certamente. Ma è risaputo che esse preluderanno ad un odio grottesco e a crescenti persecuzioni criminali, costringendo non pochi intellettuali ebrei (tedeschi, russi e italiani) a repentini e avventurosi esili, quando riuscirà loro di sfuggire ai campi di concentramento. Come nel caso esemplare di Arnold Schönberg (1874-1951) rifugiatosi negli Stati Uniti nel 1933, ma pur sempre compartecipe delle vicissitudini e speranze della “nazione” ebraica. Giusto come testimonierà in tre dissimili circostanze e con opere che propongono non pochi interrogativi al Dio-Persona d’Israele, essendo il musicista molto vicino alla teosofia visionaria di Emanuel Swedenborg (1688-1772): dall’incompiuto capolavoro teatrale, Moses und Aaron (1930-1951), al guizzante rifacimento dodecafonico, per recitante, coro misto e orchestra, dalla tradizionale melodia ebraica Kol nidre, celebrativa della festa dello Yom Kippur (anno 1938) e alle drammatiche, concise pagine del Survivov from Warsaw (“Un sopravissuto di Varsavia”) per recitante, coro maschile e orchestra (1947) dapprima imperniato su uno Sprechgesang (“canto parlato”) di un’incisività infera, ma infine illluminato dall’irrompere dell’inno dello Schema Israel (“Ascolta Israele”), concepito in termini messianici, come l’apparizione di una sovrannaturale dimensione acustica... Restano da esaminarsi, sorvolando sulla condizione ebraica di un “senza patria” come Mahler e su quella meno problematica ma altrettanto presente e “risonante” dei compositori americani da Leonard Bernstein a Steve Reich, i casi “estremi” rappresentati dal ginevrino Ernest Bloch (1880-1959) e dall’antroposofo austriaco Viktor Ullmann (1898-1944): estremi, perché ambedue, con voci e in situazioni esistenziali diverse, riusciranno a interpretare in modo creativo la singolarità della ebraicità davanti al protendersi di un’oscurità che sembrava inarrestabile. Votati innanzi tutto all’isolamento spirituale perché impegnati ambedue nella ricerca di forme atte a conciliare l’antico Israele con l’Israele futuro, a Bloch toccherà in sorte d’essere acclamato (ma non a sufficienza) nelle sale concertistiche e accettato, quasi di malavoglia, da poche sinagoghe “riformate”, nonostante la sua volontà d’inserirsi nella storia della musica quale autore di una universale intonazione liturgica israelita. La sua monumentale partitura Israel, per due soprani, due contralti, basso e grande orchestra (1916) resta comunque a testimonianza della sua, indubbia genialità, congiuntamente al dramma lirico Macbeth (1910). Tragico, per contro, decisamente tragico, il destino di Ullmann, eccellente direttore d’orchestra e compositore ancora da riscoprire e da riesaminare, in quanto buona parte della sua produzione andò dispersa dopo l’imprigionamento nel campo di Theresienstadt (1942) e la morte nelle camere a gas di Auschwitz nel 1944. Fra i suoi lavori si possono tuttavia ricordare le Variazioni Schönberg, per pianoforte (1925) e l’opera-oratorio Der Sturz des Antichrist (“La Caduta dell’Anticristo”) su testo dello scrittore antroposofo Abert Steffen. L’opera, nel 1936, conseguì il prestigioso “Premio Emil Hertzka”, ma ancora attende - se non ci sbagliamo - un’adeguata, pubblica esecuzione.