ROSSINI AURELIANO IN PALMIRA
INTERPRETI M. Spyres, L. Belkina, J. Pratt DIRETTORE Will Cruthfield REGIA Mario Martone FESTIVAL Rof “L’aspetto opinabile di questa edizione del Rossini Opera Festival riguarda i direttori d’orchestra. Per esempio l’aitante e dotatissimo baritono francese Florian Sempey ha cantato la cavatina di Figaro facendo rivivere la retorica di Gino Bechi di oltre mezzo secolo fa, proprio in un festival sempre ammirato per la fedeltà filologica”
Due grandi registi al Rossini Opera Festival di Pesaro, Luca Ronconi e Mario Martone. Ronconi nell’Armida offre un esercizio di stile; Martone nell’Aureliano in Palmira dialoga con le convenzioni sceniche ma le indirizza a un appello trascendente. Entrambi appaiono oggi retrospettivi, nel senso che rifiutano, come direbbe Calasso, la “vulgata modernista”. D’altronde credo sia utile che il mondo dello spettacolo non sia egemonizzato soltanto dalle attualizzazioni (ma proprio a Pesaro Graham Vick ha
rivelato in termini contemporanei il Mosè). Ronconi è tornato all’Armida, di cui aveva proposto nel 1993 una versione ambientata nella Legione straniera. Era comunque una opzione eccezionale; in genere gli aggiornamenti del regista coincidono con il periodo di compo- sizione musicale dei testi, nella
Valchiria come nel Trovatore. Nella ripresa odierna punta alla semplificazione del quadro visivo nella indagine metastorica della vicenda. Quest’opera del 1817, prossima alla Ceneren
tola, è un uviale capolavoro: concilia l’orazione, una sorta di “seconda pratica” monteverdiana attraverso Gluck, e un belcantismo che enfatizza il melos; molte le premonizioni dell’opera romantica. Ronconi evoca il medievalismo della vicenda come artificio, con il ricorso a pupi siciliani, marionette appese ai fili e marionette viventi, evitando finemente la verosimiglianza. Rossini quasi congelato in una visione olimpica. Il regista non rinuncia al suo consueto sincretismo. I costumi della protagonista, disegnati da Giovanna Buzzi, sono fastosi, squisitamente ottocenteschi. Nel secondo atto gli amanti Rinaldo e Armida, figure della Gerusalemme Libe
rata, si effondono in accensioni melodiche prebelliniane: una conchiglia fiorita li accoglie nella luce di una colonna dorata con nostalgie liberty. I demoni, come grotteschi e ironici cartoni animati, agiscono in un clima notturno, che non è però romantico. Sofisticata e colta la scenografia di Margherita Palli con illusioni visive trasfigurate dalle luci e con bassorilievi che sembrano usciti dal terreo materismo di Burri. La straordinaria coreografia di Michele Abbondanza anima la musica elegante ma piuttosto ripetitiva del balletto trascorrendo da una gestualità arcaicizzante, a allusioni al balletto romantico, a vivide incursioni nella danza moderna: venticinque minuti di sintesi del vocabolario core-
ografico, dissociato e plasticamente ricomposto dalla ferratissima compagnia. Meno decisiva la versione musicale. Antonino Siragusa, Rinaldo, non è più un belcantista e tende a forzare l’emissione; la spagnola Carmen Romeu è una penetrante fraseggiatrice e scava la parola con intensità nel grandioso epilogo; il suono è lucente, ma talvolta il soprano non è impeccabile nella coloratura (è stata ingiustamente contestata da un gruppo di loggionisti pesaresi). Carlo Rizzi, alla guida dell’orchestra del Comunale di Bologna, è lontano dall’aulicità rossiniana, e legge Armida attraverso il più tardo melodramma romantico. L’Aureliano in Palmira è poco considerato dagli esegeti. Lo stesso Carli Ballola, celebre rossiniano, lo limita nella sua recente monografia. Tuttavia questo sconosciuto melodramma, presentato per la prima volta a Pesaro, alla verifica dell’ascolto appare la sensazionale scoperta del Festival. Il musicista ventunenne sembra replicare dopo qualche mese (è il 1813) il Tancredi, ma con una più evidente apertura al futuro: anticipa la svolta compositiva della successiva stagione napoletana, con l’ampliamento delle strutture musicali, e la cultura ottocentesca fino a Verdi (ci sono profezie perfino della “Canzone del velo” del Don Carlos). Le premesse mozartiane si dilatano nelle struggenti volute dei duetti, momento nevralgico dell’Aureliano, in una cantabilità “lunga” e inedita per il tempo, con una illuminante metamorfosi della memoria. Come al solito Rossini è un musicista sdoppiato: un classicista romantico. Mario Martone, come si diceva, si muove da premesse tradizionali. Dapprima evoca un esotismo piuttosto oleografico, quasi una deliberata citazione di convenzioni teatrali antiche, ma poi sovverte le regole del gioco nell’incanto di teneri duetti e terzetti e nel sapiente costruttivismo dei concertati. In questi solitari incontri il regista racconta i contrasti delle passioni rendendo emozionanti gli spazi vuoti. Il fine impianto scenico di Sergio Tramonti - un labirinto di pannelli mobili e trasparenti - esalta la trasfigurata idea drammaturgica di Martone: la figuratività sfocia felicemente nell’astrazione. La compagnia è più equilibrata di quella dell’Armida. Domina il tenore eroico Michael Spyres (di fatto un baritenore e forse un futuro Pollione) per la varietà dei registri e il perfetto dominio del canto. L’opera racconta la clemenza dell’imperatore Aureliano che consente a Zenobia, di cui pur è invaghito, di unirsi a Arsace: qualcosa di simile alla Clemenza di Tito mozartiana. La coppia degli amanti è impersonata da un musicalissimo mezzosoprano
en travesti, Lena Belkina, e da un incisivo soprano drammatico di agilità, Jessica Pratt. Dirige il musicologo Will Cruthfield, invitato in quanto responsabile dell’edizione critica. L’aspetto opinabile di questa edizione del Rossini Opera Festival riguarda i direttori d’orchestra, soprattutto l’americano Cruthfield e il giovane e molto affermato Giacomo Sagripanti. Nel Barbiere, prodotto dal laboratorio dell’Accademia di Belle Arti di Urbino, il direttore ha offerto una versione disordinata e senza controllo del palcoscenico. Sei eccellenti voci, in cui spiccavano stilisticamente il tenore belcantista Juan Francisco Gatell e il basso Alex Esposito, si esibivano a ruota libera. Oggi purtroppo non esistono più i maestri preparatori. Per esempio l’aitante e dotatissimo baritono francese Florian Sempey ha cantato la cavatina di Figaro facendo rivivere la retorica di Gino Bechi di oltre mezzo secolo fa, proprio in un festival sempre ammirato per la fedeltà filologica.