DI QUIRINO PRINCIPE
P“Chi mi ha dato questi dati vuole attizzare la mia irascibilità, seminare zizzania”
arto da due notizie. La prima è inosservata, non vista, che dire?, invisibile a occhio nudo. A dirla, a pensarci, c’è da fremere, da prendere un mobile di casa nostra e lanciarlo sulla strada attraverso una finestra chiusa in modo da far udire il massimo rumore di vetri infranti, oltre al massimo tonfo e patatrac di legno a pezzi sul selciato. La seconda notizia potrebbe far gonfiare le gote sì da produrre l’immagine enfatizzante di un infastidito “uffa”, magari con quattro “f”, poiché è rivendicazione e ripetuta all’infinito, da decenni: per quanto mi riguarda, almeno sessantacinque anni: so di essere monotono e noioso. Se tuttavia tentiamo di combinare le due notizie, di unirle a incastro, forse riusciamo a imprimere al loro rispettivo procedere una lieve scossa, e a dissotterrare qualche idea da aggiungere ai propositi già centomila volte esposti. Prima notizia. Secondo statistiche, delle quali hanno parlato riviste specializzate e ampi volumi (per esempio Musica e dischi o Il disco di Luca Cerchiari), in Italia, tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta, sul totale delle vendite di dischi circa il 60% riguardava ciò che io chiamo musica forte. Tale percentuale è una media rispetto a diverse fonti, ma ciò che conta è l’ordine di grandezza, poiché il dettaglio che sto per riferire non è una somma di sfumature: è un divario macroscopico. Infatti, pare che oggi la musica forte stia al 5% e di conseguenza la debole al 95%. Avverto immediatamente che ho forti dubbi su queste cifre. Le fonti posso essere unilaterali e a due dimensioni, non “stereoscopiche”. È probabile che le notizie a me date siano tendenziose, seminatrici di discordia. È possibile che chi me le ha fornite abbia voluto attizzare la mia irascibilità, godersi lo spettacolo di un dinosauro claudicante, obeso e idrofobo. Forse i dati si riferiscono alle vendite in negozi e botteghe, ed escludono quelle che avvengono nelle edicole, nei supermercati, nelle stazioni ferroviarie o aeroportuali, nei luoghi di sosta e ristoro lungo le autostrade. Forse il divario odierno può essere “corretto”: da 5% versus 95%, a 20% versus 80%. Così è meno inaccettabile, e tuttavia è il “processo” che suscita ira, indignazione, ribrezzo.La questione è malissimo posta. Poiché io dico “musica forte” e “musica debole”, ma quasi tutti gli altri continuano a dire “musica classica” (orrore!) e “musica legge- ra” (abominio!), domando: che senso ha dire: il 20% (o il 5%) di musica “classica (forte!)” e l’80% (o il 95%) di “musica leggera (debole)”? Sarebbe come dire: dei 60 milioni di cittadini italiani, il 20% (o il 5%) sono delinquenti, truffatori, cialtroni, bigotti e mafiosi, e l’80% (il 95%) sono onestissimi, specchiati, irreprensibili, laici e maniaci della legalità. Musica forte o debole non sono due categorie, ciascuna in sé compatta e delimitata. Sono due poli estremi, il massimo o il minimo di energia, tra i quali esiste una gamma d’infinite gradazioni. L’una non esclude mai l’altra: la musica forte, campata per definizione nella sfera dell’Essere, può degenerare in musica debole, per routine, per inaridimento di idee, per compromessi con l’esistente, con la mercificazione, con la sfera dell’Avere. All’inverso, la musica debole può trasformarsi in forte. Come? Ho detto mille volte che la musica debole non è una scelta ideologica, consapevole e decisa. È una minorità qualitativa, un difetto di conoscenza tecnica e culturale mascherata da “creatività alternativa”. Non di rado è accaduto che protagonisti ruttanti o melensi di musica debole o debolissima abbiano sentito la voglia di uscire da tale minorità, abbiano studiato e si siano disciplinati (la musica forte non è uno svago pallonaro e circense), e con ciò abbiano messo muscoli, con esiti insperati. Ma perché ciò avvenga non come eccezione bensì come norma, occorre reintrodurre in Italia la musica nell’insegnamento pubblico non specialistico: nell’intero sistema scolastico, come avviene in tutti gli stati civilizzati (ossia, esclusi soltanto i territori controllati dal talebani, dall’Isis, da Al-Qaeda). Ecco qui, alla fine, la seconda notizia, che è una squallida persistente realtà: lo squallore dei legislatori, fermi nel loro idiota diniego; lo squallore di altri poteri dello Stato, chiusi nella loro ottusa convinzione che la musica danneggi la salute; l’imbecillità di alcuni capi religiosi, sonnolenti nel loro imbecille analfabetismo e persuasi che la musica sia un frivolo intrattenimento. Sono ingiusto, sono in errore? Oh, dimostratemelo! Come vorrei sbagliare, come vorrei essere iniquo! E va bene, sono mie idee personali, soggettive. Come ha scritto un mio illustre predecessore, Eraclito di Efeso, edizesámen emeoutón, «ho indagato me stesso».