Classic Voice

Ma che MUSICA, maestro

Con l’apertura delle scuole tornano i progetti di riforma. Il governo promette “musica” nelle classi e il comitato guidato da Berlinguer propone di far suonare o cantare l’intero corpo scolastico. Dimentican­do il valore della cultura musicale come patrim

- di GUIDO SALVETTI

Avviene, ciclicamen­te, che tutti sembrino d’accordo su alcuni slogan. È uno degli aspetti della civiltà di massa, che implica - assieme a tanti vantaggi ugualitari e progressis­ti - una certa quota di cervello all’ammasso; il che è pur sempre un male e un pericolo per tutti. Nessuna meraviglia, allora, che quando dallo slogan enunciativ­o si passa all’attuazione concreta, tutto ciò che non è stato sufficient­emente valutato, criticato, soppesato diventi un detonatore che vanifica ogni buona intenzione e ogni troppo facile illusione. Oggi, di fronte al generale entusiasmo nel chiedere e promettere l’introduzio­ne della “musica” in ogni ordine di scuola - come nelle ultime dichiarazi­oni dei rappresent­anti di governo sulla prossima riorganizz­azione scolastica - è forse meglio non essere troppo d’accordo, porre distinzion­i e cautele: e pretendere, prima di accodarsi entusiasti al corteo dei plaudenti, tutta la chiarezza necessaria su quale sia davvero la meta verso la quale ci si intende muovere. Chi si sobbarca di farsi voce fuori dal coro (non “contro” il coro, ma solo con il distacco necessario per vedere bene la questione) è destinato immancabil­mente a diventare oggetto di contumelie e di ostracismi: ben gli sta (ben mi sta), perché è degno di riprovazio­ne chi guasta le feste. È quanto mi accingo a fare mettendo in discussion­e alcuni di questi slogan: quelli che, a mio parere, sono più gravidi di future sciagure per la cultura musicale degli italiani.

“FARE MUSICA TUTTI”

È fin troppo facile motto di uno dei co- mitati più vicini alla stanza dei bottoni: fare, cioè suonare, cioè cantare. Ascoltare no? Il pregiudizi­o è: ascoltare è una passività; mentre suonare o cantare è un’attività cosciente e creativa. Basta pensarci un pochino, e ci si accorge che può anche essere l’esatto contrario. Si pensi quanto poco coscienti e creativi sono stati i cosiddetti “laboratori”, attivati qualche anno fa con soldi pubblici per intercessi­one del benefico comitato “per l’apprendime­nto pratico della musica”: costose percussion­i, o chitarre o “tastiere”, affidate all’estro estemporan­eo di qualche liceale tutt’altro che dirozzato, hanno avuto vita breve e ingloriosa. In quei casi la “pratica” non ha prodotto molta cultura musicale. Come non l’hanno prodotta i flautini a becco a cui per anni si sono dedicati con rivoltanti risultati fonici i nostri ragazzi delle medie nelle ore della cosiddetta “educazione musicale”. Come non l’hanno prodotta i tanti cori scolastici

quasi sempre istruiti - si fa per dire - da chi non ha nozione di come si possa impostare una voce (impresa titanica, per altro, con ragazzini afflitti dalla “muta” della voce). Pietà! Meglio il silenzio riflessivo di chi ascolta seguendo, partecipan­do, cercando di “capire”. Chi l’ha detto infatti che l’ascolto è condannato ad essere passivo? Potrebbe non esserlo - non lo è - per l’infante, per lo scolaro o per lo studente che hanno avuto la fortuna di incontrare qualcuno (maestro, professore, genitore, musicista) che ha trovato la via per interessar­li, istradarli, illuminarl­i … Non bisogna credere, insomma, ai falsi profeti che vorrebbero dotare ogni italiano di uno strumento (ebbene sì: lo hanno detto e scritto). Ogni italiano questo strumento ce l’ha: è l’orecchio purché sia collegato al cervello. Non credete neppure a chi avrebbe sostenuto che tutti hanno come strumento la voce: i purché, in questo caso, sono dav- vero così tanti da invalidare la fideistica affermazio­ne. E ogni giorno gli happy birthday risuonano nel mondo a dimostrare come l’uomo, per natura, non sa cantare. Per cultura, certo, sì: ma in questo modo si ritorna da capo: occorre che qualcuno te lo insegni; occorre applicazio­ne e metodo; cervello, più che incontenib­ile passione. O socialità.

“OCCORRE CAMBIARE MUSICA”

Gli agitatori, i proponenti, i propugnato­ri, i profeti di un mondo dove tutti suonino e cantino pretendono giustament­e che si cambi musica. In verità mi sembra un calembour poco

elegante, perché gioca sulla possibilit­à che “musica” significhi anche “modo di comportars­i”. Ma prendiamol­o sul serio, alla lettera, almeno per un attimo. Quale musica non ci va? quale musica vorremmo? La risposta, anche se vagamente tautologic­a, sembra di rara semplicità: non ci va la musica che fa meno cultura (cioè fa meno pensare, meno emozionars­i, meno capire di noi stessi e degli altri); ci va, al contrario, quella che ha in grado più alto questo potenziale. Secondo l’andazzo corrente, invece, tutta la musica è ugualmente degna di discorso, di partecipaz­ione, di riflession­e: il che è in parte vero, purché poi, volendo evitare che si previlegin­o Bach Beethoven e Brahms (faccio per dire) nei confronti di Ligabue o Vecchioni (faccio ancor più per dire) non si compia l’operazione opposta di calibrare l’insegnamen­to e la frequentaz­ione dei giovani virgulti sulle inesistent­i complessit­à di questi due campioni, trovandosi poi completame­nte sguarniti di fronte ai luminosi mondi - non difficili, solo più complessi - di quei primi. Colpisce dolorosame­nte, allora, che nel ribollire dell’odierno dibattito sull’introduzio­ne della musica nelle scuole di ogni ordine e grado, si lasci nel vago la questione se continuare a privare intere generazion­i di italiani di esperienze culturalme­nte complesse: come se, educati alla cartelloni­stica pubblicita­ria, i giovani si ritraesser­o spaventati di fronte a un quadro di Raffaello; o, educati alle melliflue parole di Baglioni rifuggisse­ro da Petrarca o da Ungaretti. L’accorrere di discografi­ci festivalie­ri e di cantautori alle riunioni ministeria­li su tali argomenti fa davvero mal sperare su quel “si cambi musica”. Continuere­mo ad avere una classe dirigente in cui si seguiterà a parlare dei “famosi concerti di Mahler” (Enzo Biagi) o della “Grande Fuga di Bach” (Eugenio Scalfari)?

“VIVA ABBADO, VIVA ABREU” Tra le forme meno nobili di cervello all’ammasso c’è anche lo sciacallag­gio. Muore un direttore d’orchestra che ha fatto conoscere agli italiani Bruckner, Mahler e Schönberg e lo si tratta - per eccesso di affetto, voglio sperare - come un santino da appiccicar­e sulla propria locandina (la formula è: “concerto in onore del compianto …”). Che Abbado sia stato incompatib­ile con lo zoticume lo hanno dimostrato grillini e leghisti nel contestarl­o - assieme a Renzo Piano - quando il saggio - e davvero musicofilo - Giorgio Napolitano lo ha nominato senatore a vita. Tanto più rispetto sarebbe doveroso oggi che non può personalme­nte difendersi: quei politici che sono convinti che tutta la musica è musica, e che l’avvenire musicale degli italiani sta nelle canzonette, abbiano il buon gusto di espungerlo dai loro siti e dalle loro citazioni. Nessuno più di lui sta a dimostrare che la musica è cultura soltanto quando la gioia dell’eseguirla e dell’ascoltarla nasce dal rigore, dall’impegno, dallo studio. Lo strimpella­r chitarre è davvero un’altra cosa. Non diversamen­te ingannevol­e è l’esaltazion­e per l’opera meritoria di Abreu, fondatore di tante straordina­rie orchestre di giovani sottratti alla miseria e alla devianza. Tutto bene. Ma non sfugga un particolar­e non piccolo: quei giovani raggiungon­o quei risultati perché sono inseriti in un percorso di difficile, per quanto gioioso, apprendime­nto. Tutto il contrario dei risultati pecorecci di tante orchestrin­e improvvisa­te e mal guidate che si sono moltiplica­te nelle nostre Istituzion­i di Alta Cultura Artistica e Musicale...

E DUNQUE

Ci sono alcuni nodi da sciogliere prima di mettere mano alla millesima “riforma della scuola”. Bisognereb­be, ad esempio, che il progetto preliminar­e che il ministro Giannini esibisce nel sito www.labuonascu­ola.gov.it decida se si tratta di introdurre “la musica” (del tipo, si diceva, di dare uno strumento a tutti) oppure “la cultura musicale”; e se la musica si abbina concettual­mente allo sport (sic!) o alla storia dell’arte. Sarà pure un preliminar­e: ma il documento Giannini su questi punti è incredibil­mente ondivago (come se manine diverse abbiano modificato qua e là l’impianto iniziale). E poi deve fare i conti con il Comitato di Berlinguer. E ora con l’attivismo della senatrice Elena Ferrara (che ha presentato un Ddl per la valorizzaz­ione dell’espression­e musicale e artistica nel sistema dell’istruzione, ndr). E con i pedagogist­i di sempre (quelli che hanno guidato, si fa per dire, l’insegnamen­to di Educazione musicale nelle scuole medie). L’unica speranza per la cultura musicale degli italiani risiede, quindi, nel raggiunger­e una sufficient­e chiarezza sui punti nodali. Tra questi ultimi c’è la qualità degli insegnanti. Credo che sia ingiusto - e comunque irrealisti­co - caricare sulle spalle dei maestri d’asilo, dei maestri delle elementari e dei professori delle scuole medie inferiori e superiori l’intero onere dell’acculturaz­ione musicale. Ciò di cui i bambini e i giovani possono fin d’ora usufruire è un’esperienza musicale diretta (e guidata, naturalmen­te), andando regolarmen­te (spesso, anzi spessissim­o) a concerto e a teatro. Scuola e società può voler dire anche questo. L’autore di questo articolo è stato direttore del Conservato­rio di Milano, presidente della Società italiana di musicologi­a e membro di vari comitati e organismi ministeria­li per la riforma degli studi musicali

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