Ma che MUSICA, maestro
Con l’apertura delle scuole tornano i progetti di riforma. Il governo promette “musica” nelle classi e il comitato guidato da Berlinguer propone di far suonare o cantare l’intero corpo scolastico. Dimenticando il valore della cultura musicale come patrim
Avviene, ciclicamente, che tutti sembrino d’accordo su alcuni slogan. È uno degli aspetti della civiltà di massa, che implica - assieme a tanti vantaggi ugualitari e progressisti - una certa quota di cervello all’ammasso; il che è pur sempre un male e un pericolo per tutti. Nessuna meraviglia, allora, che quando dallo slogan enunciativo si passa all’attuazione concreta, tutto ciò che non è stato sufficientemente valutato, criticato, soppesato diventi un detonatore che vanifica ogni buona intenzione e ogni troppo facile illusione. Oggi, di fronte al generale entusiasmo nel chiedere e promettere l’introduzione della “musica” in ogni ordine di scuola - come nelle ultime dichiarazioni dei rappresentanti di governo sulla prossima riorganizzazione scolastica - è forse meglio non essere troppo d’accordo, porre distinzioni e cautele: e pretendere, prima di accodarsi entusiasti al corteo dei plaudenti, tutta la chiarezza necessaria su quale sia davvero la meta verso la quale ci si intende muovere. Chi si sobbarca di farsi voce fuori dal coro (non “contro” il coro, ma solo con il distacco necessario per vedere bene la questione) è destinato immancabilmente a diventare oggetto di contumelie e di ostracismi: ben gli sta (ben mi sta), perché è degno di riprovazione chi guasta le feste. È quanto mi accingo a fare mettendo in discussione alcuni di questi slogan: quelli che, a mio parere, sono più gravidi di future sciagure per la cultura musicale degli italiani.
“FARE MUSICA TUTTI”
È fin troppo facile motto di uno dei co- mitati più vicini alla stanza dei bottoni: fare, cioè suonare, cioè cantare. Ascoltare no? Il pregiudizio è: ascoltare è una passività; mentre suonare o cantare è un’attività cosciente e creativa. Basta pensarci un pochino, e ci si accorge che può anche essere l’esatto contrario. Si pensi quanto poco coscienti e creativi sono stati i cosiddetti “laboratori”, attivati qualche anno fa con soldi pubblici per intercessione del benefico comitato “per l’apprendimento pratico della musica”: costose percussioni, o chitarre o “tastiere”, affidate all’estro estemporaneo di qualche liceale tutt’altro che dirozzato, hanno avuto vita breve e ingloriosa. In quei casi la “pratica” non ha prodotto molta cultura musicale. Come non l’hanno prodotta i flautini a becco a cui per anni si sono dedicati con rivoltanti risultati fonici i nostri ragazzi delle medie nelle ore della cosiddetta “educazione musicale”. Come non l’hanno prodotta i tanti cori scolastici
quasi sempre istruiti - si fa per dire - da chi non ha nozione di come si possa impostare una voce (impresa titanica, per altro, con ragazzini afflitti dalla “muta” della voce). Pietà! Meglio il silenzio riflessivo di chi ascolta seguendo, partecipando, cercando di “capire”. Chi l’ha detto infatti che l’ascolto è condannato ad essere passivo? Potrebbe non esserlo - non lo è - per l’infante, per lo scolaro o per lo studente che hanno avuto la fortuna di incontrare qualcuno (maestro, professore, genitore, musicista) che ha trovato la via per interessarli, istradarli, illuminarli … Non bisogna credere, insomma, ai falsi profeti che vorrebbero dotare ogni italiano di uno strumento (ebbene sì: lo hanno detto e scritto). Ogni italiano questo strumento ce l’ha: è l’orecchio purché sia collegato al cervello. Non credete neppure a chi avrebbe sostenuto che tutti hanno come strumento la voce: i purché, in questo caso, sono dav- vero così tanti da invalidare la fideistica affermazione. E ogni giorno gli happy birthday risuonano nel mondo a dimostrare come l’uomo, per natura, non sa cantare. Per cultura, certo, sì: ma in questo modo si ritorna da capo: occorre che qualcuno te lo insegni; occorre applicazione e metodo; cervello, più che incontenibile passione. O socialità.
“OCCORRE CAMBIARE MUSICA”
Gli agitatori, i proponenti, i propugnatori, i profeti di un mondo dove tutti suonino e cantino pretendono giustamente che si cambi musica. In verità mi sembra un calembour poco
elegante, perché gioca sulla possibilità che “musica” significhi anche “modo di comportarsi”. Ma prendiamolo sul serio, alla lettera, almeno per un attimo. Quale musica non ci va? quale musica vorremmo? La risposta, anche se vagamente tautologica, sembra di rara semplicità: non ci va la musica che fa meno cultura (cioè fa meno pensare, meno emozionarsi, meno capire di noi stessi e degli altri); ci va, al contrario, quella che ha in grado più alto questo potenziale. Secondo l’andazzo corrente, invece, tutta la musica è ugualmente degna di discorso, di partecipazione, di riflessione: il che è in parte vero, purché poi, volendo evitare che si previlegino Bach Beethoven e Brahms (faccio per dire) nei confronti di Ligabue o Vecchioni (faccio ancor più per dire) non si compia l’operazione opposta di calibrare l’insegnamento e la frequentazione dei giovani virgulti sulle inesistenti complessità di questi due campioni, trovandosi poi completamente sguarniti di fronte ai luminosi mondi - non difficili, solo più complessi - di quei primi. Colpisce dolorosamente, allora, che nel ribollire dell’odierno dibattito sull’introduzione della musica nelle scuole di ogni ordine e grado, si lasci nel vago la questione se continuare a privare intere generazioni di italiani di esperienze culturalmente complesse: come se, educati alla cartellonistica pubblicitaria, i giovani si ritraessero spaventati di fronte a un quadro di Raffaello; o, educati alle melliflue parole di Baglioni rifuggissero da Petrarca o da Ungaretti. L’accorrere di discografici festivalieri e di cantautori alle riunioni ministeriali su tali argomenti fa davvero mal sperare su quel “si cambi musica”. Continueremo ad avere una classe dirigente in cui si seguiterà a parlare dei “famosi concerti di Mahler” (Enzo Biagi) o della “Grande Fuga di Bach” (Eugenio Scalfari)?
“VIVA ABBADO, VIVA ABREU” Tra le forme meno nobili di cervello all’ammasso c’è anche lo sciacallaggio. Muore un direttore d’orchestra che ha fatto conoscere agli italiani Bruckner, Mahler e Schönberg e lo si tratta - per eccesso di affetto, voglio sperare - come un santino da appiccicare sulla propria locandina (la formula è: “concerto in onore del compianto …”). Che Abbado sia stato incompatibile con lo zoticume lo hanno dimostrato grillini e leghisti nel contestarlo - assieme a Renzo Piano - quando il saggio - e davvero musicofilo - Giorgio Napolitano lo ha nominato senatore a vita. Tanto più rispetto sarebbe doveroso oggi che non può personalmente difendersi: quei politici che sono convinti che tutta la musica è musica, e che l’avvenire musicale degli italiani sta nelle canzonette, abbiano il buon gusto di espungerlo dai loro siti e dalle loro citazioni. Nessuno più di lui sta a dimostrare che la musica è cultura soltanto quando la gioia dell’eseguirla e dell’ascoltarla nasce dal rigore, dall’impegno, dallo studio. Lo strimpellar chitarre è davvero un’altra cosa. Non diversamente ingannevole è l’esaltazione per l’opera meritoria di Abreu, fondatore di tante straordinarie orchestre di giovani sottratti alla miseria e alla devianza. Tutto bene. Ma non sfugga un particolare non piccolo: quei giovani raggiungono quei risultati perché sono inseriti in un percorso di difficile, per quanto gioioso, apprendimento. Tutto il contrario dei risultati pecorecci di tante orchestrine improvvisate e mal guidate che si sono moltiplicate nelle nostre Istituzioni di Alta Cultura Artistica e Musicale...
E DUNQUE
Ci sono alcuni nodi da sciogliere prima di mettere mano alla millesima “riforma della scuola”. Bisognerebbe, ad esempio, che il progetto preliminare che il ministro Giannini esibisce nel sito www.labuonascuola.gov.it decida se si tratta di introdurre “la musica” (del tipo, si diceva, di dare uno strumento a tutti) oppure “la cultura musicale”; e se la musica si abbina concettualmente allo sport (sic!) o alla storia dell’arte. Sarà pure un preliminare: ma il documento Giannini su questi punti è incredibilmente ondivago (come se manine diverse abbiano modificato qua e là l’impianto iniziale). E poi deve fare i conti con il Comitato di Berlinguer. E ora con l’attivismo della senatrice Elena Ferrara (che ha presentato un Ddl per la valorizzazione dell’espressione musicale e artistica nel sistema dell’istruzione, ndr). E con i pedagogisti di sempre (quelli che hanno guidato, si fa per dire, l’insegnamento di Educazione musicale nelle scuole medie). L’unica speranza per la cultura musicale degli italiani risiede, quindi, nel raggiungere una sufficiente chiarezza sui punti nodali. Tra questi ultimi c’è la qualità degli insegnanti. Credo che sia ingiusto - e comunque irrealistico - caricare sulle spalle dei maestri d’asilo, dei maestri delle elementari e dei professori delle scuole medie inferiori e superiori l’intero onere dell’acculturazione musicale. Ciò di cui i bambini e i giovani possono fin d’ora usufruire è un’esperienza musicale diretta (e guidata, naturalmente), andando regolarmente (spesso, anzi spessissimo) a concerto e a teatro. Scuola e società può voler dire anche questo. L’autore di questo articolo è stato direttore del Conservatorio di Milano, presidente della Società italiana di musicologia e membro di vari comitati e organismi ministeriali per la riforma degli studi musicali