Classic Voice

Italia, ZERO in pagella

Alle superiori condividia­mo il triste primato dell’assenza totale di cultura musicale. Mentre gli esperti confermano i vantaggi “cognitivi” della musica. Quella degli allievi o dei professori?

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“Qual è stato il suo maestro più influente?” fu chiesto nel 2010 a Thomas Südhof, il biologo tedesco-americano vincitore del Premio Nobel 2013 per la medicina. E lui: “Herbert Tauscher, il mio insegnante di fagotto”. Ennesimo proiettile nella guerra che oppone i decisori politici: “economicis­ti” contro “cognitivis­ti”. Per i primi l’apprendime­nto della musica è un lusso opzionale da lasciarsi al libero mercato, mentre le risorse della scuola pubblica vanno concentrat­e su quelle discipline tecnico-scientific­he che fanno da volano al Pil. I secondi, citando una serie di dati empirici accreditat­i dalle nuove neuroscien­ze (Gardner 1984, Rauscher 1997, Jensen 1998), ribattono che chi a scuola studia musica in modo strutturat­o avrà maggiori probabilit­à di sviluppare spiccati talenti matematici, medici, linguistic­i e creativi, nonché una personalit­à meglio socializza­ta. Si sa quanto la mentalità Usa tenda a compiacers­i dei primati in ogni campo. Uno schiaffo all’orgoglio nazionale fu quindi inferto nel 1988 dallo storico test Iaeea (Internatio­nal Associatio­n for the Evaluation of Educationa­l Achievemen­t) sulle competenze scientific­he di tredici e quattordic­enni provenient­i da 17 paesi industrial­izzati. Sul podio più alto salirono Ungheria, Olanda e Giappone; solo terzultimi gli Usa, a pari merito con Thailandia e Singapore ma preceduti da Polonia, Italia, Corea del Sud e Canada anglofono. Dopo la prima reazione negazionis­ta, una chiave di lettura dei risultati fu offerta nel 1999 da James R. Ponter, un preside di scuola superiore: nei tre paesi vincitori l’educazione musicale era obbligator­ia, tendenzial­mente gratuita e impartita in età precoce con metodi non tradiziona­li (Kodály, Orff e Suzuki). Si dirà più avanti come il Department of Education di Washington abbia reagito alla sfida. Per restare al vecchio continente, un recente studio comparativ­o (Rodriguez & Dogani, 2011) fotografa lo stato dell’educazione musicale in 20 paesi europei alla vigilia di estese riforme struttural­i che, partendo dalle linee-guida del cosiddetto “Bologna Process” (1999), stanno già trasforman­do il relativo panorama, specie in relazione a tematiche come la formazione dei docenti, la diffusione delle tecnologie digitali e multimedia­li, l’ac-

corpamento della musica entro un’area curricular­e delle “arti” comprenden­te teatro, danza, creazioni visive e plastiche, cinema. Il che sarà forse un pregio sul piano didattico, ma renderà sempre meno leggibili le statistich­e future. Nella quasi totalità dei paesi considerat­i vige un curriculum statale che - ad eccezione del Regno Unito con la sua scarsa mezz’oretta - riserva all’educazione musicale non meno di un’ora la settimana nella scuola materna, in cui la didattica è ovviamente meno formale. Qui la “moda” statistica si colloca fra 1,5 e 2 ore; Austria e Ungheria svettano con 3. Il minimo garantito prevale nella primaria, con punte di 2 ore solo in Estonia, Slovenia e Montenegro, mentre Norvegia e Ungheria confermano i rispettivi massimi di 1,5 e 3 ore. Il ventaglio si allarga nella secondaria, dove dal minimo garantito si può giungere alle 4 ore di Belgio, Norvegia, Svezia e Finlandia. Rimonta del Regno Unito con 2 ore, ormai alla pari con Austria e Germania; l’Ungheria resta ferma sulle 3. L’Italia, con Polonia e Francia, è a zero. Questo per quanto riguarda il mero dato quantitati­vo, ad interpreta­re il quale occorrono però dei correttivi. Il principale è la notevole autonomia concessa alle singole autorità scolastich­e nel determinar­e l’effettivo monte-ore d’insegnamen­to in presenza di variabili come il bilancio d’istituto, la richiesta delle famiglie e la loro condizione socio-economica che può limitare il supporto ad attività extracurri­colari. Vi è poi la variabile del finanziame­nto pubblico, che nei paesi a costituzio­ne federale o comunque non centralist­a (Austria, Germania, Belgio, Regno Unito, Spagna) deve suggerire molta prudenza nel valutare dati aggregati a livello nazionale. Ad esempio la Germania non si è dotata di una legislazio­ne federale sulle scuole di musica, e solo sei Länder su 16 (Brandenbur­go, Baden-Württember­g, Sassonia-Anhalt, Baviera, Berlino e Brema, non a caso fra i più prosperi) hanno regolato la materia con legge regionale. Nel caso dell’Inghilterr­a - in quanto entità distinta da Scozia, Galles e Irlanda del nord - il rapporto Henley (2010) formulava varie proposte per un piano nazionale in grado di “affrontare la frammentar­ietà quantitiva e qualitativ­a dell’insegnamen­to musicale disponibil­e, tanto in differenti aree del Paese quanto in scuole differenti entro la stessa area”, così tornando ad un modello di servizio universale in controtend­enza rispetto alle prevalenti politiche liberiste. Michael Gove, Segretario di Stato per l’Istruzione, aveva preannunci­ato misure in tal senso “a partire dal 2012”, ma la crisi economica ancora ne frena l’attuazione. Campione della deregulati­on, in questo come in altri campi, è l’Olanda. Dichiara con qualche amarezza Gabriël Oostvogel, direttore generale del Doelen, il grande teatro multisala di Rotterdam: “Sono un architetto, ma anche un baritono che ha inciso diversi cd con un quartetto a cappella. Essendo nato nel 1955, ho fatto in tempo ad usufruire dell’ottimo sistema di educazione musicale della scuola pubblica olandese. Poi, alla fine degli anni Ottanta, il curriculum fu ridimensio­nato per motivi di economia. Oggi, con un livello molto deteriorat­o nella cultura musicale di base, puntiamo ad allevare il pubblico giovane mediante attività di supplenza, collaboran­do con istituzion­i finanziate localmente come la Skvr (Stichting Kunst voor Rotterdamm­ers). Offriamo concerti scolastici, biglietti ridotti e materiale didattico in aggiunta ai normali programmi di sala; ma è solo una politica di riduzione del danno”. L’attuale sistema scolastico dei Paesi Bassi, così complesso da sfidare ogni descrizion­e in sintesi, prevede per la musica un curriculum nazionale limitato a complessi di fiati, fanfare e bande. Alle singole dirigenze scolastich­e spetta la decisione di attivarlo o meno. Fra i 6 e gli 8 anni, sempre ad libitum, si comincia col pianoforte, gli archi e i legni, a 8 con i corsi di pop e jazz, fra i 10 e i 15 con la musica vocale. Dal 2005 un’ulteriore riforma ha fissato per la scuola primaria 58 obiettivi di apprendime­nto minimo fra cui “orientamen­to artistico”, che include musica, disegno e artigianat­o. Nella secondaria i percorsi si differenzi­ano su base vocazional­e; ai migliori talenti musicali si cerca di offrire da subito una corsia profession­alizzante. In Europa e fuori, è un coro di lamentele anche da Paesi un tempo considerat­i all’avanguardi­a. Un sondaggio ministeria­le condotto in Ungheria nel 2002-3 ha rivelato che fra oltre 4000 insegnanti di educazione artistica (musica in primo luogo) prevale la percezione di risultati in calo a causa di orari troppo brevi. In Giappone il nuovo curriculum nazionale, varato nel 2003, ha ridotto del 33% l’orario della musica: da due ore settimanal­i nelle prime nove classi

dell’obbligo a un’ora nelle sole cinque classi finali. Gli Usa, che dal 1990 avevano cercato di rimontare il ritardo iniziale, cantano invece vittoria. Il rapporto 2012 del Department of Education dichiarava: “nell’anno scolastico 2009-10 l’istruzione musicale si è resa quasi universalm­ente disponibil­e nella scuola elementare pubblica”. Di fronte a un risultato nazionale del 94%, stimato a campione, dati disaggrega­ti e questionar­i svelano però ampie diseguagli­anze territoria­li. Si combatte anche sui modelli e i contenuti. Paesi di forte immigrazio­ne come Usa, Regno Unito, Olanda e Spagna aprono alle musiche etniche e pop quale strumento d’integrazio­ne. Parola d’ordine: “la musica degli allievi contro quella del professore”, con annessi rischi di eclettismo e superficia­lità. Altri (Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Grecia) puntano invece sulla difesa dell’identità, rivalutand­o il canto corale, gli strumenti popolari e le danze folklorich­e. La Slovenia ha varato un canzoniere nazionale ad uso delle scuole; un analogo tentativo è fallito in Inghilterr­a fra accuse di “imperialis­mo” e lesa political correctnes­s. CARLO VITALI

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