Classic Voice

ACUTI in valigia

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prestigio unico al mondo. Dopo il debutto, fui subito contattata dall’agente del Met che mi ingaggiò per sei mesi. E il Covent Garden mi propose Otello nientemeno che con Del Monaco e Gobbi, sotto la direzione di Solti”.

In quegli anni conobbe anche Karajan…

“Dovevo fare Pagliacci con lui e andai a Berlino per un’audizione, accompagna­ta dal maestro Tonini. Ero una povera ragazza comunista intimidita. Karajan entrò in sala, mi guardò con quei grandi occhi bianchi, magnetici e mi chiese che cosa stessi cantando in quel periodo. ‘Il Requiem di Verdi’, risposi. ‘Me lo faccia sentire’. Il maestro Tonini non aveva quello spartito e andò in confusione. Così mi sedetti al pianoforte e mi accompagna­i da sola. Fui scritturat­a. Ma poi ci fu la lite”.

Quale lite?

“Karajan pensava forse alle inquadratu­re per il film e mi chiedeva di stare più ferma in scena. Dopo due richiami, sbottai: ‘Senta, maestro, questo è il mio modo di interpreta­re il personaggi­o. Se non le piace, arrivederc­i’. E me ne andai. Tornai in pensione e trovai il telefono che stava squillando. Era Ghiringhel­li, infuriato: ‘Lei è una pazza, come si permette di piantare in asso il maestro Karajan?’. Tornai a capo chino”.

E Karajan?

“Da quel momento mi ha odiato. Non mi ha più chiamato per dieci anni. Lo fece soltanto quando, a Salisburgo, la Price aveva rinunciato al Trovatore… Però che direttore! Era veramente magico. Aveva il dono incredibil­e di nobilitare anche gli errori”.

Fra i tenori, qual è stato il partner con cui si è trovata meglio?

“Difficile scegliere, ho cantato con quelli della generazion­e precedente, come Del Monaco, Corelli, Bergonzi, Tucker, ma ho anche tenuto a battesimo Carreras e Pavarotti in Tosca”.

Chi era il suo Cavaradoss­i preferito?

“Come bellezza della voce, Lucianone non aveva rivali: la sua era una voce che ti penetrava sotto pelle. Aveva anche una grande tecnica. Quando ho cominciato a insegnare, sono andata da lui per farmi spiegare i segreti delle note di passaggio nella vocalità tenorile. Carreras aveva una faccina angelica”.

Domingo?

“Sono stata io a farlo venire in Italia, anche se lui fa finta di non ricordarsi… Ero a Santiago del Cile, Alice nel Falstaff con Vinay, che era stato l’Otello di Toscanini. Sentii cantare quel ragazzo dai riccioli neri, allora aveva 25 anni, e gli dissi: ‘Tu diventerai il numero uno dei tenori’”.

Ha cantato anche con Kraus…

“Avevamo un carattere simile. Era un Sagittario come me, un vero hidalgo. Tutti e due abbiamo fatto causa alla Scala, in momenti in cui nessuno si ribellava al teatro milanese. Abbiamo vinto entrambi. Certo, poi non abbiamo più cantato lì, né lui né io… Ma devo dire che mi aveva dato una grande soddisfazi­one riscuotere quei soldini senza fatica: gli unici guadagni che non ho dovuto sudare nella mia carriera”.

Lei non si è accontenta­ta di Tosche, Adriane e Butterfly, ruoli in cui primeggiav­a, ma ha sempre cercato nuove sfide.

“Sono molto curiosa. Nella prima fase della carriera, il cantante è scelto; ma poi, se ha certe qualità, è lui che sceglie. Ho avuto la fortuna, a un certo punto, di incontrare due sovrintend­enti come Carlo Fontana e Carlo Majer. Con Fontana a Bologna ho potuto fare Armide di Gluck e Capriccio di Strauss, per cui Lele d’Amico tradusse per me il libretto in italiano. Con Majer ho affrontato il Britten del Giro di vite e Il caso Makropulos di Janácek con le bellissime regie di Ronconi”.

Qual è il personaggi­o a cui è rimasta più legata?

“Sentimenta­lmente, la Francesca di Zandonai. Mi trovavo a mio agio in quel clima fin de siècle, dannunzian­o… E poi, grazie a quest’opera, ho conosciuto mio marito, che era aiuto regista di De Lullo e Bolognini. Quando ci siamo sposati e siamo andati ad abitare a Modena, lui è tornato a fare il farmacista”.

È vero che non avrebbe esitato a sacrificar­e il cachet di una serata per un bel vestito?

“Verissimo! Ho sempre adorato la moda. Sono stata la musa di Roberto Capucci, grandissim­o artista. Gli hanno dedicato una mostra a Venaria Reale e sette degli abiti esposti sono miei”.

Le piace insegnare ai giovani?

“La vita mi ha dato molto e ora vorrei poter dare agli altri quello che ho avuto io. Insegnare è un atto di generosità, ma anche una responsabi­lità. Occorrono soprattutt­o due cose: orecchio, per capire che tipo di voce hai davanti a te; e una grande cultura musicale, che vada da Monteverdi a Schönberg, perché devi aiutare i ragazzi a trovare la loro strada per la libertà culturale. Purtroppo, non posso fare a meno di essere totalmente pessimista”.

Perché?

“Sto costruendo bravi cantanti, ogni anno dai miei corsi ne vengono fuori almeno due o tre. Ma dove canteranno? Che cosa mangeranno? La patria del melodramma è stata distrutta da quarant’anni di sprechi e di morte morale. Ai miei ragazzi, a malincuore, dico: andate all’estero”.

Ha rimpianti?

“No, perché sono abituata da sempre a guardare avanti, non al passato. Non ho mai avuto il culto della personalit­à. Non ho archivi e non ho tenuto neanche i programmi delle mie recite. Ma che bello quando qualcuno mi ferma per la strada e mi dice: ‘Grazie per le emozioni che ci ha dato’!”.

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