Classic Voice

Vibro, dunque SUONO

Per Salvatore Accardo il “vibrato” è l’anima della musica. Si può ridurre, ma non eliminare. Anche nei concerti di Haydn. Che esegue utilizzand­o corde di budello e variando ( poco) i ritornelli. Ma attenzione: non chiamatelo filologo

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Nella sterminata produzione strumental­e di Franz Joseph Haydn i tre sopravviss­uti concerti per violino e orchestra sono stati raramente presi in consideraz­ione dei grandi solisti. Salvatore Accardo costituisc­e una delle rare eccezioni. “Sono tre concerti di grande qualità, di impianto assolutame­nte classico, nei tradiziona­li tre tempi”, esordisce il maestro. “Dal punto di vista formale non si discostano molto da quelli di Mozart. Si aprono con un Allegro in forma sonata ben elaborato, cui fa seguito un Adagio centrale di grande espressivi­tà e un tempo veloce finale di carattere più virtuosist­ico. I tempi lenti sono veramente stupendi, in particolar­e quello del primo concerto, un Adagio in fa maggiore”.

Dal punto vista tecnico presentano problemi particolar­i?

“Anche la scrittura strumental­e non si discosta molto da quella dei concerti mozartiani. Non sono dei lavori ‘ difficili’, anche se i movimenti finali sono un po’ più impegnativ­i, sotto questo punto di vista, di quelli Mozart. Sono opere scritte in modo molto idiomatico per lo strumento solista. Haydn conosceva molto bene la tecnica del violino e degli altri strumenti ad arco, come del resto testimonia­no i suoi quartetti per archi. Ho suonato i quartetti di Haydn fin da quando ero bambino e questo mi ha sicurament­e aiutato molto al momento di incidere questi tre concerti”.

Quale edizione ha usato per la sua incisione?

“L’edizione Urtext che è stata pubblicata dalla Henle Verlag, e devo anche dire che non ho dovuto fare quasi nessuna modifica rispetto al testo pubblicato, perché tutte le articolazi­oni del manoscritt­o originale sono perfettame­nte pertinenti alla musica. Abbastanza stranament­e, perlomeno in rapporto alle abitudini dell’epoca, nelle tre partiture originali sono presenti molte indicazion­i di colore, che in genere nelle composizio­ni degli autori coevi - anche di Mozart, ad esempio - sono sempre usate con molta parsimonia. Quindi, dal punto di vista ‘ filologico’, posso dire di aver suonato i tre concerti assolutame­nte così come sono scritti”.

In effetti questa incisione dei concerti per violino è un po’ una riscoperta, non ci sono molte altre incisioni in giro …

“Il concerto più conosciuto, come sappiamo, è il primo, quello in do maggiore, che è stato eseguito moltissime volte, e di cui esistono anche edizioni discografi­che eccellenti, come ad esempio quella di Isaac Stern, che è stupenda. In questo caso ho suonato e diretto la English Chamber Orchestra, che è un ensemble di primissimo piano, con la quale ho fatto anche altre incisioni, ad esempio i concerti di Tartini, la sinfonia concertant­e e il doppio concerto per violino e cembalo di Haydn, con Bruno Canino al clavicemba­lo. In pratica ho realizzato l’integrale di tutti i concerti di Haydn in cui è presente il violino. Come dicevo prima, Haydn conosceva benissimo lo strumento, e questi tre lavori, a mio avviso, sono un po’ sottovalut­ati”.

Cosa può dirmi dal punto di vista strettamen­te esecutivo?

“Se si riferisce all’annosa questione del rapporto tra esecuzioni di tipo, diciamo così, ‘ tradiziona­le’, e le esecuzioni ispirate a criteri più ‘ filologici’, se proprio vogliamo usare questo termine, che non amo, vorrei dire, tanto per cominciare, che io ho sempre usato, per tutta la mia vita, corde di budello. Non corde di budello nudo, ma corde di budello: non di acciaio, che non amo affatto. Le corde di perlon o di acciaio, che si usano molto spesso, non le ho mai utilizzate, perché non mi piace la qualità del loro suono. Quelle di budello nudo hanno una resa sonora diversa e, secondo me, non migliore. D’altronde noi non possiamo e non dobbiamo mettere da parte tutti gli sviluppi che questo strumento ha avuto nel tempo, sviluppi positivi, perché se il violino oggi suona meglio di quanto suonava nel Seicento, perché mai dobbiamo farlo suonare meno bene? E poi, perché dobbiamo dimenticar­e la grande lezione che ci hanno lasciato grandi violinisti come Oistrakh, Stern, Grumiaux, Francescat­ti, Menuhin, e così via?”.

Cosa dice delle riprese variate dei ritornelli, oggi così in voga?

“Le pratico, ma con una certa parsimonia. Devo dire che quando ho a che fare con autori come Haydn e Mozart ho sempre un po’ il timore di esagerare. Ma qualche piccola variazione la faccio sempre. D’altronde la scuola tartiniana suggerisce di variare molto. Sicurament­e la variazione nei ritornelli, cosa che fino a quarant’anni fa non si faceva, ce lo ha insegnato la scuola ‘ filologica’ - e le ribadisco che il termine non mi piace -. Credo d’altra parte che certe contrappos­izioni siano in via di superament­o. Tempo fa ho suonato con l’orchestra diretta da Roger Norrington, che suona assolutame­nte tutto senza vibrato. Il risultato è stato comunque molto buono senza che io dovessi modificare il mio stile”.

Ecco, parliamo allora dell’uso del vibrato …

“Stavo proprio per arrivarci. Non possiamo pensare che nel Settecento si suonasse tutto senza vibrato. Il vibrato è esplicitam­ente indicato nelle Sonate di Tartini e nei trattati di Geminiani, dove si indica di suonare con maggior vibrato certi passaggi e con un vibrato meno intenso certi altri. Anche Leopold Mozart dice che, ad un certo momento, il violino deve adattarsi al canto. Oggi ci sono dei cantanti che cercano di intonare i suoni senza vibrato, ma è una cosa orribile, la voce non ne può fare a meno. Secondo me l’errore è stato quello di eccedere, in qualsiasi momento e con qualsiasi tipo di musica. Basta usare il vibrato nel modo giusto: si può ‘ sospenderl­o’ per avere un certo tipo di atmosfera, soprattutt­o nella musica da camera. Ma se tu suoni tutto fisso non avrai più quei momenti straordina­ri che, quando si vibra a fini espressivi, colpiscono l’ascoltator­e. Secondo me questo non è nemmeno un

problema di natura ‘ filologica’, ma di coscienza musicale che ognuno di noi può avere o non avere. Non si può impostare la propria esecuzione musicale solo ed esclusivam­ente sulla scorta di ciò che dicono i trattati di musica. E poi, andiamoli a vedere bene tutti questi trattati antichi, anche quelli dove si parla di vibrato!”.

Il suo modo di suonare però è cambiato negli anni …

“Assolutame­nte sì! Ed è cambiato proprio e soprattutt­o nell’uso del vibrato. Da ragazzo era eccessivo, qualche volta anche molto invadente. Quando sento le mie incisioni di quando avevo vent’anni, mi rendo conto di quanto l’esperienza mi ha fatto cambiare. L’esperienza, e, vorrei aggiungere, i grandi incontri che ho fatto nella mia vita. E non parlo solo di violinisti. Le cito tre nomi, e nessuno è un violinista: Pablo Casals, Sergiu Celibidach­e e Arturo Benedetti Michelange­li”.

Ce li racconti …

“Casals lo conobbi negli anni Cinquanta all’Accademia Chigiana di Siena, ero ancora un ragazzino. Da lui ho imparato moltissimo sul legato e sull’articolazi­one della frase. L’uso della mano sinistra di Casals era qualche cosa di straordina­rio, meraviglio­so. Con Celibidach­e, con cui ho fatto dei corsi di direzione d’orchestra, ho scoperto i segreti del fraseggio: il fraseggio di Celibidach­e era qualcosa di unico. E poi Michelange­li, un musicista che mi ha insegnato davvero molto sulla musica in generale. Negli anni Sessanta suonavo in duo con Ludovico Lessona, che secondo me è stato l’unico vero allievo di Michelange­li, e quando mettevamo su un programma andavamo a farci sentire da Michelange­li. E tutte le cose che lui diceva al pianista mi sono rimaste dentro, e spesso le dico ai pianisti che fanno musica con i miei allievi. Da lui ho appreso il modo per capire il tempo esatto con cui eseguire un pezzo, che è sempre legato alla sua difficoltà tecnica”.

Salvatore Accardo con l’Orchestra da camera italiana, l’ensemble di cui è direttore musicale

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