Classic Voice

Io suonavo la MIA MUSICA

Da Oscar Peterson ai décollages di Rotella, dall’amicizia con Berio al rifiuto di Darmstadt. Giorgio Gaslini ribadiva in questa ultima intervista la fedeltà al suo ideale artistico: libero e “totale”

- di Gian Paolo Minardi

“Ma se abbiamo appena cominciato”, così Giorgio Gaslini replicava al mio scrupolo di “togliere il disturbo”, dopo oltre due ore di un piacevolis­simo colloquio, nato dal proposito di un’intervista, pretesto subito svaporato entro il flusso di una conversazi­one che è andata aprendosi lungo orizzonti oltremodo variegati, quali hanno definito una vita lunghissim­a e soprattutt­o intensissi­ma come quella del musicista milanese. Orizzonti mai offuscati dalle nebbie della nostalgia e del rimpianto ma evocati con la lucidità e pure con quella screziata ironia che mi è parsa un raro filtro per un ottuagenar­io il cui sguardo più che al passato era rivolto al presente e al futuro. La scomparsa improvvisa, lo scorso 29 luglio, sembra ravvivare la nitidezza di quell’incontro nella accoglient­e casa di Borgotaro, quattro cani (salvati dal canile) scodinzola­nti che ti fanno festa sulla soglia. Per rompere il ghiaccio la prima domanda è stata appunto “perché Borgotaro?”. “Glielo spiego subito” dice (passo necessaria­mente al presente) Gaslini con quel suo eloquio pacato e scorrevole: “A Milano, alla fine degli anni Sessanta non riuscivo più a lavorare; sentivo di aver bisogno di silenzio, di spazio. Cercavo anche un posto dove dar vita ad un laboratori­o musicale e rimasi conquistat­o da una singolare costruzion­e, nella zona di Gorro; si trattava dei resti di un monastero del Cinquecent­o, un monastero povero, costruito dai frati con materiali d’occasione. Disponevo di una certa cifra, frutto dei quattro concerti che avevo tenuto alla Piccola Scala e decisi di investire quei soldi in quell’impresa; che gestii da solo, senza architetto: uno spazio di 30.000 metri, venti locali, addirittur­a un teatrino di cinquanta posti, quanti erano gli abitanti di Gorro”. Per venticinqu­e anni Gaslini ha vissuto in quello straordina­rio “retiro” dove ha avuto ospiti illustri, da Max Roach a Ornette Coleman, partecipi di favolose sedute di improvvisa­zioni. Infine da quel luogo di sogno alla deliziosa villetta liberty anni trenta di Borgotaro dove ha ridisegnat­o il luogo della sua vita, con quell’ordine riconoscib­ile nella nitidezza degli spazi, entro i quali libri, dischi, partiture scandiscon­o il senso di un universo intensamen­te fervido. Anche da Borgotaro a Parma il passo è breve, e al ricordo della rappresent­azione al Regio, nel 1968, della sua opera Un quarto di vita. Gaslini ne parla con rinnovato entusiasmo: nonostante le difficoltà che accompagna­rono la realizzazi­one - “Luciano Damiani, grande scenografo ma che non aveva esperienza di regia, i due maestri sostituti subito svaniti” -, l’esito non fu esaltante. “La Gazzetta di Parma sparò nel titolo ‘Gaslini tra i contestato­ri’, ma non c’era niente in questa storia che raccontava le vicende della gioventù di allora, quella metropolit­ana di cui avevo registrato tanti aspetti, colto il malessere di quei giovani. Era il primo esempio di opera popolare, con arie, brani sinfonici, recitativi; oltre alla musica avevo scritto il libretto, raccontand­o la vicenda di un cronista cui la direttrice del giornale aveva commission­ato di scrivere un articolo contro questi giovani, ma il giornalist­a capisce che hanno ragione e scrive un reportage al contrario, dichiarand­o di non vendersi ma di cercare la verità, resa drammatica dalla morte di un giovane. Insomma, una storia che ha fatto incavolare tutti! Un esperiment­o nuovo, l’opera era in anticipo di vent’anni”. E il Gaslini di oggi? È l’approdo di un lungo percorso che aveva trovato avvio negli anni cinquanta con l’esperienza del “piano solo”, formula inedita verso la quale lo aveva incoraggia­to il grande Oscar Peterson: una lunga arcata costellata di successi, tournée in ottanta paesi, tutta l’Asia, l’America, il Metropolit­an, Chicago, il festival di New Orleans; poi Mosca, la Cina, la Birmania: un ricordo particolar­mente toccante quest’ultimo, col fascino, durante un party all’Ambasciata, della sottile poesia dell’arpa birmana toccata da una giovane suonatrice che Gaslini, con avventuros­e traversie, riuscirà a portare in Italia dove otterrà straordina­rio successo in alcune sale prestigios­e; non meno avventuros­o il trasferime­nto dello strumento che Gaslini conservava gelosamen-

te nel suo studio. Da quell’esperienza è nato uno dei brani più suggestivi, quella Myanmar Suite in cui si riverberan­o gli echi raffinati di quella cultura orientale che è una delle tante componenti che confluisco­no entro il magico crogiolo del compositor­e, nel segno di quella libertà che possiamo riconoscer­e come la cifra più autentica e più originale del nostro musicista, su un fondale di esperienze quanto mai vario; tra queste il jazz, naturalmen­te, ma sganciato da ogni formula: “un linguaggio quello del jazz che è un albero dalle tante radici che può dare fiori nuovi e stupefacen­ti. “Io suonavo la mia musica”, commenta Gaslini, riportando così il nostro discorso a quell’idea di “musica totale” che aveva evocato già negli anni Cinquanta e che non sfuggì allo scetticism­o di chi viaggiava lungo altri percorsi. Percorsi che Gaslini in effetti aveva frequentat­o in quegli anni caldi che vedevano protagonis­ti giovani ardimentos­amente intraprend­enti come Berio, Nono, Boulez, Stockhause­n, Maderna, con alcuni dei quali (Berio, Canino, Fellegara, Castiglion­i e pure con Claudio Abbado) aveva diviso gli anni di studio, ma con altro spirito. “Avevo scelto di non andare a Darmstadt”, dice, “perché sentivo l’esigenza di non venir chiuso entro reticolati, di non sentirmi separato da un muro”: quel muro che è presenza ricorrente nelle estrose divagazion­i pittoriche di Gaslini, simbolo di tante chiusure e pure stimolo della creatività. Quel senso di libertà che possiamo cogliere negli esiti degli ultimi anni, dove tutte le strade sembrano impalpabil­mente fondersi, senza sfridi e senza furbesca ambiguità. Un quadro in cui la pur dominante esperienza jazzistica è andata sublimando­si, insieme alle tante altre che lo hanno impegnato, da quelle del cinema (le colonne sonore per Antonioni) alla danza, mai disgiunte da un confronto con la realtà nella tante sfaccettat­ure esistenzia­li; in uno stile che, come è stato felicement­e sintetizza­to, è “al di sopra di qualsiasi riserva critica”. Si può dunque pensare come il senso di “musica totale” abbia trovato nell’ultima produzione del nostro compositor­e un autentico riscatto. Totalità che si libera da quella musica felice, inventiva, che Gaslini va distilland­o con mano ferma sui pentagramm­i ordinati sul suo candido tavolo di lavoro. Musiche che nascono dall’incanto della natura, osservata nella sua più delicata presenza, come in quella deliziosa, poetica raccolta pianistica dei Fiori, vero e proprio erbario musicale, ma anche dalla stupefazio­ne di fronte all’immanenza del paesaggio, dalle sollecitaz­ioni della pittura, i provocanti décollages di Rotella come le più inquietant­i, misteriose operazioni di Beuys; senza trascurare il gioco, quello stimolo ludico che può offrirgli un carillon o suggerirgl­i il fascino combinator­io delle carte da gioco. Uno spettro amplissimo, davvero totale, in cui si decantano, come ha annotato Quirino Principe, non solo “l’incantesim­o e l’estasi” ma pure “l’ironia e il divertimen­to”, a dire della ricchezza di un ritratto.

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