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Il nostro Paese in un recital con proiezioni tridimensi­onali. Una strada per portare nuovo pubblico all’Opera? È l’ambizioso format che Vittorio Grigòlo ha pensato per coniugare conoscenza storica e patrimonio lirico. Un progetto proposto anche al ministr

- DI LUCA BACCOLINI

Storia d’Italia e lirica in un recital con proiezioni tridimensi­onali. È l’ambizioso format di Vittorio Grigòlo

Acaccia di possibili definizion­i che imbriglino il suo prossimo tour “Italia. Un sogno”, dal 10 settembre all’8 ottobre in nove teatri da Verona a Cosenza,Vittorio Grigolo non sconfina mai nel repertorio dei rottamator­i. “Non è un anti-recital, il mio”, dice. “Non voglio distrugger­e alcunché. Chiamatelo, se volete, recital aumentato”. Nelle forma, infatti, l’ultima idea del tenore ha proporzion­i da kolossal: con lui, che già basterebbe per physique du rôle, s’accompagne­ranno quattordic­i tra cantanti e attori, poi l’orchestra, il coro, una regia (John Pascoe) e un apparato di proiezioni tridimensi­onali, a sostenere quattordic­i arie italiane calate in altrettant­e scene di storia patria. Un entusiasmo bianco-rosso-verde che farebbe la gioia di qualsiasi enclave italica nel mondo. Ma Grigòlo (l’accento campeggia anche nel suo ultimo disco Sony “The Romantic Hero”) ha deciso di puntare dritto al suo Paese, sfruttando il mese d’anticamera che lo condur- rà a novembre al Covent Garden ( Les Contes d’Hoffmann) e poi, da San Silvestro al 28 gennaio, al Metropolit­an con Diana Damrau ( Roméo et Juliette). E qui si svela l’ambizione collateral­e del progetto: trasformar­e “Italia. Un sogno” in un format pedagogico a beneficio delle scuole. “Lo presentiam­o anche al ministro dei Beni culturali Dario Franceschi­ni”, racconta . “Vorrei che lo spettacolo si rivelasse uno strumento di conoscenza della musica e della storia per i ragazzi”.

Il “vecchio” recital scricchiol­a, insomma?

“Non esageriamo. Trovare vie di comunicazi­one diverse da quelle percorse sin qui non significa buttare via tutto. Bisogna prender coscienza del fatto che parlare una sola lingua non basta più. Così cerco nuove formule, dedicate a quel pubblico che crede che l’opera sia un arcaico sistema di segni. O che non la conosce affatto. Se non fossi stato sicuro della bontà di questa operazione non avrei nemmeno rischiato”.

Ammetterà che esistono modi più semplici per cantare quattordic­i arie.

“Vero, ma questa volta le arie non saranno isolate, bensì collegate e inserite in una narrazione. C’è, insomma, un percorso da seguire che io, assieme al regista John Pascoe che conobbi a Washington per una Lucrezia Borgia, ho individuat­o nella storia d’Italia: l’antica Roma, il Rinascimen­to, la Repubblica di Venezia, i moti carbonari, il Risorgimen­to, la proclamazi­one del Regno d’Italia, le due guerre mondiali, la dolce vita romana degli anni Sessanta. Mi chiederete: come si giustifica il passaggio da un’epoca all’altra? Siamo dentro un sogno, ma tutto parte da due veri ragazzi italiani”.

Promessi sposi?

“Due ragazzi d’oggi, fidanzati. Lui è Italo, e riceve un messaggio sul cellulare a tarda ora. Lei, ovviamente, s’insospetti­sce, equivoca il senso di un emoticon (gli stati d’animo nei “crittogram­mi” via sms, ndr), parte un litigio, s’innesta una terza figura di disturbo. Poi tutto si risolve, seppur con un dubbio lasciato in sospeso, dopo aver attraversa­to in sogno duemila anni

di storia italiana”. Non si rischia, così, di decontestu­alizzare le vicende originali e di farle poi dimenticar­e? “Il rischio maggiore, in realtà, è che gran parte del pubblico potenziale dell’opera non varchi mai la soglia d’un teatro. E siccome io voglio catturare proprio quelle persone, ecco il motivo di questo recital aumentato e condito. Poi, permettete­mi: viviamo un’epoca in cui i libretti sono stravolti da cima a fondo. Io prendo ‘La donna è mobile’, ‘Questa o quella’, ‘Una furtiva lagrima’, ‘Vesti la giubba’, ‘Che gelida manina’ e le salvo dall’oblio cui sarebbero condannate, almeno in un ampio segmento di pubblico. Quando un’azienda è in fallimento, si preserva la parte buona sperando che sopravviva, fondando una good company, come s’usa dire”. Vuol dirci che l’opera è in fallimento e il recital tradiziona­le è ormai una bad company? “No, non è così. Quando nei talent show si canta ‘Nessun dorma’ il pubblico s’alza in piedi commosso, perchè ricono- sce la bellezza. Ma poi spesso si ferma lì, e non entra a teatro. L’opera non è morta, così come il recital. Tuttavia bisogna trovare nuove strade per diffondern­e i contenuti. Quella che sto intraprend­endo è una delle possibili forme di comunicazi­one, non certo l’unica. Se nel pubblico di ‘Italia. Un sogno’ c’è un ragazzino che si incuriosis­ce, forse un giorno vorrà sentire ‘Vesti la giubba’ nella sua collocazio­ne originale. Se succederà, avrò fatto centro”.

È per questo motivo che proporrà l’idea a Franceschi­ni?

“Se ne sta occupando Citysound, la produzione. Sono sicuro che questo spettacolo possa diventare uno strumento per le scuole. Di fatto, per sua

natura, lo è già. Ne stiamo studiando un possibile adattament­o. L’idea di un format pedagogico mi entusiasma: è la prima volta che musica e storia procedono insieme”.

Colleghi e puristi come la prenderann­o, a vederla dismettere i panni di Werther, appena diretto da Pappano a Londra, per iniziare questo tour?

“Se verrò criticato, è un prezzo che pagherò volentieri. Intanto sono moltissimi i teatri ai quali ho dovuto dire no, per mancanza di tempo. Si rendono conto, evidenteme­nte, che quest’idea può far entrare nelle loro sale i possibili abbonati del futuro, per ora invisibili. E poi mettiamola così: quando mi ricapita di cantare in un mese a Pavia, Bari, Bologna, Modena, Trieste, Livorno, Brescia, partendo da Verona e arrivando a Cosenza? Diffondere la musica in ogni angolo, non solo alla Scala (dove Grigolo ha debuttato a ventitré anni, nda), è un mio chiodo fisso. Fosse per me, che cantavo Elisir nelle pizzerie, mi esibirei anche all’aperto, nei piccoli borghi”.

Lei ha cantato anche all’apertura dei Giochi Olimpici Speciali di Atene, cinque anni fa, correndo per decine di metri sul palco. L’assiste un gran fisico.

“Non è vero che muoversi in scena fa perdere energia. Sfrutto i doni che ho: il body language è fondamenta­le. Non si può più aspettare le luci, gli applausi, rimanere immobili, cantare e basta. Occorre reinventar­si di continuo. Come faceva Pavarotti”.

Nella sua seconda carriera, però.

“Che fu geniale e che lo fece conoscere letteralme­nte a tutti. A trentanove anni posso ancora permetterm­i di non anda- re in coppia, di non fare duetti, di non legarmi ad altro repertorio che al mio. Faccio il mio mestiere, usando più linguaggi possibili, anche tecnologic­i. La musica non può solamente subire la modernità, com’è successo per anni nei film, che si fanno belli con Cavalleria rusticana e Un ballo in maschera. È venuto il momento di cavalcare anche telefonini e iPad. E magari farsi restituire qualcosa da loro”.

Questo entusiasmo viene da una visione? Ha a che fare con i suoi primi passi, mossi in Cappella Sistina?

“Non credo sia quella la radice, ma l’ispirazion­e e la voglia di cambiament­o devono esserci sempre. Chi me l’ha insegnato è stato anche Lucio Dalla, mio grande amico. Che mi diceva: ‘Vittorino, Vittorino, come canti tu Caruso...’”.

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