EUROAMERICA
Nato e cresciuto nei bassifondi di New Orleans, Louis Armstrong - il magnifico istrione che sgranava gli occhi per divertire il pubblico - ha inventato la figura del solista cambiando per sempre la storia del jazz. A 45 anni dalla scomparsa ricordiamo un
Louis Armstrong magnifico istrione: ha inventato la figura del solista cambiando per sempre la storia del jazz
Nella puntata precedente abbiamo raccontato come l’Original Dixieland Jazz Band - tutta di musicisti bianchi - sia passata alla storia per la prima incisione del 1917. Se per i neri trasferirsi da New Orleans alle città del Nord significava sfuggire all’intolleranza razziale, per i “visi pallidi” fu occasione di maggiori opportunità di lavoro. E con esse suscitare l’interesse delle compagnie discografiche. Fu così che Nick LaRocca a New York, come altre band bianche a Chicago, godettero sul finire degli anni Dieci del Novecento di un monopolio sul mercato dei dischi di un genere che gli apparteneva solo in parte. Le cose cambiarono dal 1920 quando apparvero i colored records, poi dal 1922 ribattezzati race records, i dischi della “razza”, incisi dai neri per diffondersi nelle comunità afroamericane, la cui straordinaria popolarità dimostrò il potenziale commerciale dei veri creatori del jazz. Fra i musicisti trapiantati a Chicago da New Orleans c’era Louis Armstrong (1901-1971), che nel 1922 aveva raggiunto Joe “King” Oliver il quale testimoniava, grazie al notevole numero di registrazioni, come i musicisti del Delta facessero furore fuori casa. Anche se non aveva la discreta eleganza dei New Orleans Rhythm Kings, né gli ingegnosi arrangiamenti dei Red Hot Peppers, la Creole Jazz
Band di Oliver riusciva a trasmettere l’essenza del primo jazz proprio attraverso un sound sporco, swingante e caldo: era l’essenza della tradizione dei trombettisti pionieri. Louis Armstrong, invece, entra in scena con la personalità dirompente dell’innovatore, divenendo in breve tempo un mito anche oltre i confini del jazz. Accompagnato da leggendarie biografie: la data di nascita anticipata al 4 luglio 1900 a simboleggiare l’indipendenza nazionale, quando in realtà il certificato di battesimo dichiara il 1901; i genitori che, secondo alcune versioni, erano nati in schiavitù mentre le esistenze di William Armstrong e Mary Albert si situano dopo la proclamazione di emancipazione... Un’enfasi narrativa, quella su Louis figlio illegittimo di una ragazza madre, che fa di lui un miracolo di redenzione: dai bassifondi della città della Louisiana dove trascorse la prima infanzia al riformatorio che lo accolse nella pubertà, un luogo che paradossalmente fu la sua fortuna perché lì Dipper (diminutivo di Dippermouth, bocca a forma di mestolo: così lo chiamavano prima del più famoso appellativo Satchmo, sempre per via della grande bocca) imparò a suonare la cornetta. Fu la prima occasione per accorgersi del talento che gli scalpitava dentro. Proprio all’istituto di correzione Waifs’ Home di New Orleans gli fu affidata la direzione della banda. Fece poi le prime esperienze musicali nei localacci di Storyville, il quartiere della prostituzione. Mentre di giorno per sopravvivere girava le strade vendendo carbone porta a porta, la sera si trovava con i migliori musicisti della città: Kid Ory, Sidney Bechet, “Papa Mutt” Carey e Joe “King” Oliver a cui Armstrong era grato per le lezioni di cornetta e per averlo indicato come suo successore nell’orchestra di Ory nel 1918, quando il “Re” aveva lasciato New Orleans per Chicago.
E adesso era proprio Joe a chiamarlo nella città dell’Illinois. Erano l’uno l’opposto dell’altro, ma Armstrong era pronto a stupire tutti con entrate estemporanee mai tentate prima: riallacciava la trama melodica di Oliver in una frazione di secondo: nessuno riusciva a capire come facesse. Erano nati i famosi duetti di cornetta fra il vecchio e il giovane astro del jazz. Fu un idillio finché non s’intromise Lil Hardin, la pianista del gruppo che nel 1924 sarebbe diventata la sua seconda moglie. Lil aveva studitato musica alla Fisk University e aveva un carattere forte: non seppe trattenersi dal dire al marito che secondo lei il “re” di Storyville lo aveva chiamato a Chicago per controllarlo: vedeva in lui un concorrente, non gli avrebbe mai permesso di emergere. Tanto fece Lil che Louis fu attratto dalla prospettiva di cambiare. Dopo qualche mese nella formazione di Ollie Powers che si esibiva al Dreamland di Chicago, accettò l’offerta di Fletcher Henderson che lo voleva a New York nella sua band: l’ingresso di Armstrong portò un radicale cambiamento nella concezione orchestrale. La moglie, intanto, nel novembre 1925 lo richiamò a Chicago dove lo aspettava un’orchestra di otto elementi da lei stessa diretta nella quale Louis sarebbe stato la stella principale. Rispetto a Oliver che concepiva l’orchestrazione come musica collettiva, Armstrong è il primo grande solista di jazz. Le sue melodie sono equilibrate e fluide, in netto contrasto con il resto della band: la sua energia inventiva gli impedisce di limitarsi al ruolo di gregario. Armstrong è consapevole di avere una personalità capace di lasciare un segno nella storia. E chi si è fermato a descriverlo come un magnifico istrione che dava spettacoli di varietà si è dimenticato che, dietro le mosse sornione, i sorrisi a occhi sgranati per divertire il pubblico, c’era un uomo cresciuto in un’epoca in cui il nero americano non poteva permettersi di fare dell’arte. Ci riuscì Armstrong con quel suo stile funambolico. E divenne la quintessenza del jazz, come ebbe a dire Duke Ellington dopo la morte del celebre collega. Una lezione per tutti i jazzisti nati dopo di lui. Un personaggio da affiancare a Chaplin, Einstein, Picasso o Churchill, capace di trascendere la realtà del proprio tempo per diventare mito. Agli storici non resta che sfoltire, dall’ingombrante immagine del personaggio pubblico, a volte discutibile, l’operato di un musicista che ha trasformato il jazz in arte, togliendolo dalla palude della musica d’intrattenimento radicata nel folklore.