APPROFONDIMENTI
Il melodramma abbonda di crimini catalogabili secondo i principi dell’antico diritto comune. I librettisti somministrano ai loro personaggi pene e assoluzioni giuridicamente plausibili. Ma a volte criticano ingiustizie e lungaggini della macchina processu
Pene e assoluzioni giuridicamente plausibili nel melodramma. E critiche alla macchina processuale attraverso arie e cabalette
Quante volte ci siamo imbattuti nel diritto in un melodramma? Magari non ce ne siamo accorti, ma le occasioni di incontrare istituti giuridici abbondano e derivano, almeno in parte, dai testi letterari che hanno dato lo spunto ai libretti. A volte occorre un po’ di fiuto per notare la situazione. Per esempio, quando Manrico nel Trovatore di Verdi racconta di come il suo braccio, sul punto di ferire il Conte di Luna, alias suo fratello, si è misteriosamente arrestato perché un grido dal cielo gli ha ingiunto: “Non ferir!”, prestiamo tutti attenzione al fatto che il tenore deve cantare queste parole sottovoce (con tre ppp). In punto di diritto, però, Manrico ha appena confessato alla madre un omicidio tentato: voleva uccidere, ha alzato il braccio, ma non ha colpito. Una perfetta esemplificazione di delitto “tentato” per “desistenza volontaria”, come si dice in termini legali. Il precedente più illustre è nella Norma di Bellini, quando la sacerdotessa, che è madre di due figli, alza anche lei il braccio omicida sulla prole, ma poi desiste dal proposito criminoso esclamando: “Ah no: son miei figli”. Quello che si accinge a compiere Gabriele Adorno contro il doge Simon Boccanegra è invece un crimine di lesa maestà, che non si consuma perché viene impedito da Amelia.
Nel mettere in scena crimini e criminali, i compositori mostrano spesso di conoscere non solo le categorie giuridiche e i vari tipi di delitto, ma anche le pene stabilite nell’epoca in cui si svolge l’azione. Al centro delle opere di genere semiserio, per esempio, non è infrequente imbattersi in veri e propri errori giudiziari le cui vicende sono narrate in musica a un vasto pubblico. La Gazza ladra di Rossini prende effettivamente spunto da un fatto verificatosi in Francia: la condanna a morte di una fanciulla ingiustamente accusata di aver sottratto un cucchiaio d’argento. Rossini, in questo caso, mette sotto accusa sia la crudeltà del diritto penale francese di antico regime, che puniva il furto domestico addirittura con la morte, sia il processo farsa condotto dal Podestà ai danni di Ninetta.
Il grand opéra francese è attratto da streghe, eretici e dalla terribile pena che era riservata al dissenso religioso. La Juive di Halévy si conclude con la protagonista che va al rogo perché ebrea. Nel Don Carlos di Verdi assistiamo all’auto da fé degli eretici secondo il rito dell’inflessibile inquisizione spagnola.
Il delitto può essere doloso, ma anche involontario. La Forza del destino di Verdi è incentrata su un tragico omicidio accidentale. Un reato può anche essere l’effetto di pulsioni determinate dalla follia, che elimina l’imputabilità dell’azione. Sul palcoscenico vi è quindi spazio per un altro istituto giuridico: la non imputabilità delle azioni compiute da chi è incapace di intendere e di volere e delinque in uno stato di alienazione mentale che lo sottrae alla pena, come la Lucia di Donizetti.
I compositori spesso non rappresentano pene irrogate dai giudici, ma vendette eseguite dalla vittima o dai suoi familiari. Nel medioevo e in età moderna la giustizia privata corrisponde ad una consuetudine diffusa tra le classi aristocratiche, soprattutto in caso di omicidio (come nella Forza del destino di Verdi) o di adulterio. In questo caso le opere fotografano con precisione una pratica giuridica. Nell’Otto-Novecento essa si estende alle classi più povere: non per niente molti drammi veristi descrivono omicidi per causa d’onore. Molto preciso sugli usi del suo paese è Janácek, che nelle sue opere mostra in modo esemplare l’intreccio tra delitto e peccato, diritto e religione. In Jenufa ad esempio si allude alla pena della lapidazione per l’infanticidio e in Káta Kabanová si tratta ampiamente della
punizione dell’adultera.
Anche il processo penale ha fornito spunti al teatro lirico. Nel medioevo c’erano due metodi di svolgere il processo penale: per accusa e per inquisizione. Nel primo caso occorreva che qualcuno (la vittima per esempio) accusasse una persona di aver commesso un delitto e costui doveva anche provare la colpevolezza dell’accusato. Nell’alto medioevo (secoli V-XI), i popoli germanici non ricercavano vere e proprie prove, ma altri mezzi come il giuramento e le ordalie o giudizio divino: duello, acqua bollente, carboni ardenti. Dal XII secolo questo sistema fu sostituito da metodi probatori basati sul diritto romano e quindi sulle testimonianze e sulla confessione. La confessione divenne ben presto la regina delle prove e fu consentito l’uso della tortura allo scopo di ottenerla. Il processo inquisitorio, invece, era basato sull’inchiesta (inquisizione), condotta dal giudice, che procedeva a indagare sull’autore di un crimine, senza bisogno di accusatore, e a interrogarlo con arti sottili. Per condannare alla pena stabilita occorrevano prove piene: la confessione dell’imputato o almeno due testimoni oculari concordi. Di regola, non erano sufficienti gli indizi, anche se numerosi. La tortura per costringere l’imputato a dire la verità fu comunemente in uso fino alla fine del Settecento.
Tutto ciò si rispecchia nelle opere liriche. Nel Lohengrin di Wagner, Telramund lancia un’accusa di fratricidio in piena regola a carico della innocente Elsa di Brabante, dopo la quale sappiamo che si
svolgerà un duello. Una situazione analoga si verifica nella Götterdämmerung, quando Brünnhilde accusa pubblicamente Siegfried di furto dell’anello e di spergiuro. Questa volta però l’accusato non è tenuto a combattere per discolparsi, ma a giurare: cosa che Siegfried fa sulla sua lancia.
L’Aida verdiana, oltre alla celebre scena del giudizio di Radamès, offre un ottimo esempio di interrogatorio nel duetto tra Amneris e Aida. È vero che la figlia del faraone non agisce ufficialmente in veste di giudice, ma di fatto la sua è una vera e propria inquisizione per accertare i veri sentimenti di Aida. Ed è anche un esempio di interrogatorio sicuramente illegittimo, perché Amneris ottiene il suo scopo con un sotterfugio vietato, cioè fingendo che Radamès sia morto. Certe regine, tuttavia, sanno agire più correttamente: Elisabetta nel Roberto Devereux di Donizetti chiede nuove prove di alto tradimento contro l’amante, anche se poi si accontenta di una sciarpa di seta. Enrico VIII manda sul patibolo Anna Bolena per molto meno. A Jago nell’Otello verdiano è sufficiente un sogno per “dare forma di prova ad altro indizio”, cioè il possesso in mano di Cassio del fazzoletto donato dal Moro a Desdemona.
La tortura, quando non è solo minacciata, è reale e visibile (o udibile) soprattutto in Puccini. In Tosca essa è addirittura doppia: una fisica per Cavaradossi e una psicologica per Tosca, mentre in Turandot a farne le spese è la dolce Liù. Anche la confessione di un crimine, specie se spontanea e inattesa, può creare un colpo di scena a teatro: l’esempio più emblematico sotto questo punto di vista è il “Son io” di Norma, che si dichiara “rea oltre ogn’umana idea” di rottura dei voti sacri e alto tradimento al suo popolo. La confessione della propria colpa si tingeva anche di un significato religioso: ce ne dà un bellissimo esempio Janácek in Káta Kabanová.
Quanto alle sentenze ingiuste pronunciate da un giudice o da un collegio giudicante, esse assumono una funzione basilare in molti melodrammi. Basti pensare al Tancredi o alla Gazza ladra di Rossini, che contiene un coro (“Tremate, o popoli”) sull’inflessibile punizione esemplare inflitta a Ninetta. Pochi sanno che questo inno a una giustizia cieca impressionò moltissimo Francesco Carrara, il più grande penalista italiano dell’Ottocento. Non è da meno la raffigurazione della giustizia politica del veneziano Consiglio dei Dieci ne I Due Foscari di Verdi.
Nel teatro del Novecento, la vicenda più sconcertante la propone Britten con il processo sommario subito da Billy Budd, in cui al silenzio dell’innocente marinaio si contrappone l’ingiusta condanna a morte proferita dal capitano Vere in aperta violazione di numerose regole del codice militare di guerra inglese del 1749. Dietro a Britten c’è naturalmente il racconto giudiziario di Melville. Nell’opera avviene talvolta di vedere messi in scena anche i mali della giustizia civile, come i processi che si trascinano infinitamente da un grado all’altro. Il riferimento è alla disputa testamentaria al centro dell’Affare Makropulos, di cui la protagonista Emilia Marty conosce ovviamente i fatti per averli personalmente vissuti nella sua incredibile lunga vita. Non per niente il sipario si apre nello studio dell’avvocato di Praga, che da qualche anno cura la causa, ormai centenaria...
L’autore è professore ordinario di Diritto comune all’Università di Milano Bicocca.