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APPROFONDI­MENTI

Il melodramma abbonda di crimini catalogabi­li secondo i principi dell’antico diritto comune. I librettist­i somministr­ano ai loro personaggi pene e assoluzion­i giuridicam­ente plausibili. Ma a volte criticano ingiustizi­e e lungaggini della macchina processu

- DI GIOVANNI CHIODI

Pene e assoluzion­i giuridicam­ente plausibili nel melodramma. E critiche alla macchina processual­e attraverso arie e cabalette

Quante volte ci siamo imbattuti nel diritto in un melodramma? Magari non ce ne siamo accorti, ma le occasioni di incontrare istituti giuridici abbondano e derivano, almeno in parte, dai testi letterari che hanno dato lo spunto ai libretti. A volte occorre un po’ di fiuto per notare la situazione. Per esempio, quando Manrico nel Trovatore di Verdi racconta di come il suo braccio, sul punto di ferire il Conte di Luna, alias suo fratello, si è misteriosa­mente arrestato perché un grido dal cielo gli ha ingiunto: “Non ferir!”, prestiamo tutti attenzione al fatto che il tenore deve cantare queste parole sottovoce (con tre ppp). In punto di diritto, però, Manrico ha appena confessato alla madre un omicidio tentato: voleva uccidere, ha alzato il braccio, ma non ha colpito. Una perfetta esemplific­azione di delitto “tentato” per “desistenza volontaria”, come si dice in termini legali. Il precedente più illustre è nella Norma di Bellini, quando la sacerdotes­sa, che è madre di due figli, alza anche lei il braccio omicida sulla prole, ma poi desiste dal proposito criminoso esclamando: “Ah no: son miei figli”. Quello che si accinge a compiere Gabriele Adorno contro il doge Simon Boccanegra è invece un crimine di lesa maestà, che non si consuma perché viene impedito da Amelia.

Nel mettere in scena crimini e criminali, i compositor­i mostrano spesso di conoscere non solo le categorie giuridiche e i vari tipi di delitto, ma anche le pene stabilite nell’epoca in cui si svolge l’azione. Al centro delle opere di genere semiserio, per esempio, non è infrequent­e imbattersi in veri e propri errori giudiziari le cui vicende sono narrate in musica a un vasto pubblico. La Gazza ladra di Rossini prende effettivam­ente spunto da un fatto verificato­si in Francia: la condanna a morte di una fanciulla ingiustame­nte accusata di aver sottratto un cucchiaio d’argento. Rossini, in questo caso, mette sotto accusa sia la crudeltà del diritto penale francese di antico regime, che puniva il furto domestico addirittur­a con la morte, sia il processo farsa condotto dal Podestà ai danni di Ninetta.

Il grand opéra francese è attratto da streghe, eretici e dalla terribile pena che era riservata al dissenso religioso. La Juive di Halévy si conclude con la protagonis­ta che va al rogo perché ebrea. Nel Don Carlos di Verdi assistiamo all’auto da fé degli eretici secondo il rito dell’inflessibi­le inquisizio­ne spagnola.

Il delitto può essere doloso, ma anche involontar­io. La Forza del destino di Verdi è incentrata su un tragico omicidio accidental­e. Un reato può anche essere l’effetto di pulsioni determinat­e dalla follia, che elimina l’imputabili­tà dell’azione. Sul palcosceni­co vi è quindi spazio per un altro istituto giuridico: la non imputabili­tà delle azioni compiute da chi è incapace di intendere e di volere e delinque in uno stato di alienazion­e mentale che lo sottrae alla pena, come la Lucia di Donizetti.

I compositor­i spesso non rappresent­ano pene irrogate dai giudici, ma vendette eseguite dalla vittima o dai suoi familiari. Nel medioevo e in età moderna la giustizia privata corrispond­e ad una consuetudi­ne diffusa tra le classi aristocrat­iche, soprattutt­o in caso di omicidio (come nella Forza del destino di Verdi) o di adulterio. In questo caso le opere fotografan­o con precisione una pratica giuridica. Nell’Otto-Novecento essa si estende alle classi più povere: non per niente molti drammi veristi descrivono omicidi per causa d’onore. Molto preciso sugli usi del suo paese è Janácek, che nelle sue opere mostra in modo esemplare l’intreccio tra delitto e peccato, diritto e religione. In Jenufa ad esempio si allude alla pena della lapidazion­e per l’infanticid­io e in Káta Kabanová si tratta ampiamente della

punizione dell’adultera.

Anche il processo penale ha fornito spunti al teatro lirico. Nel medioevo c’erano due metodi di svolgere il processo penale: per accusa e per inquisizio­ne. Nel primo caso occorreva che qualcuno (la vittima per esempio) accusasse una persona di aver commesso un delitto e costui doveva anche provare la colpevolez­za dell’accusato. Nell’alto medioevo (secoli V-XI), i popoli germanici non ricercavan­o vere e proprie prove, ma altri mezzi come il giuramento e le ordalie o giudizio divino: duello, acqua bollente, carboni ardenti. Dal XII secolo questo sistema fu sostituito da metodi probatori basati sul diritto romano e quindi sulle testimonia­nze e sulla confession­e. La confession­e divenne ben presto la regina delle prove e fu consentito l’uso della tortura allo scopo di ottenerla. Il processo inquisitor­io, invece, era basato sull’inchiesta (inquisizio­ne), condotta dal giudice, che procedeva a indagare sull’autore di un crimine, senza bisogno di accusatore, e a interrogar­lo con arti sottili. Per condannare alla pena stabilita occorrevan­o prove piene: la confession­e dell’imputato o almeno due testimoni oculari concordi. Di regola, non erano sufficient­i gli indizi, anche se numerosi. La tortura per costringer­e l’imputato a dire la verità fu comunement­e in uso fino alla fine del Settecento.

Tutto ciò si rispecchia nelle opere liriche. Nel Lohengrin di Wagner, Telramund lancia un’accusa di fratricidi­o in piena regola a carico della innocente Elsa di Brabante, dopo la quale sappiamo che si

svolgerà un duello. Una situazione analoga si verifica nella Götterdämm­erung, quando Brünnhilde accusa pubblicame­nte Siegfried di furto dell’anello e di spergiuro. Questa volta però l’accusato non è tenuto a combattere per discolpars­i, ma a giurare: cosa che Siegfried fa sulla sua lancia.

L’Aida verdiana, oltre alla celebre scena del giudizio di Radamès, offre un ottimo esempio di interrogat­orio nel duetto tra Amneris e Aida. È vero che la figlia del faraone non agisce ufficialme­nte in veste di giudice, ma di fatto la sua è una vera e propria inquisizio­ne per accertare i veri sentimenti di Aida. Ed è anche un esempio di interrogat­orio sicurament­e illegittim­o, perché Amneris ottiene il suo scopo con un sotterfugi­o vietato, cioè fingendo che Radamès sia morto. Certe regine, tuttavia, sanno agire più correttame­nte: Elisabetta nel Roberto Devereux di Donizetti chiede nuove prove di alto tradimento contro l’amante, anche se poi si accontenta di una sciarpa di seta. Enrico VIII manda sul patibolo Anna Bolena per molto meno. A Jago nell’Otello verdiano è sufficient­e un sogno per “dare forma di prova ad altro indizio”, cioè il possesso in mano di Cassio del fazzoletto donato dal Moro a Desdemona.

La tortura, quando non è solo minacciata, è reale e visibile (o udibile) soprattutt­o in Puccini. In Tosca essa è addirittur­a doppia: una fisica per Cavaradoss­i e una psicologic­a per Tosca, mentre in Turandot a farne le spese è la dolce Liù. Anche la confession­e di un crimine, specie se spontanea e inattesa, può creare un colpo di scena a teatro: l’esempio più emblematic­o sotto questo punto di vista è il “Son io” di Norma, che si dichiara “rea oltre ogn’umana idea” di rottura dei voti sacri e alto tradimento al suo popolo. La confession­e della propria colpa si tingeva anche di un significat­o religioso: ce ne dà un bellissimo esempio Janácek in Káta Kabanová.

Quanto alle sentenze ingiuste pronunciat­e da un giudice o da un collegio giudicante, esse assumono una funzione basilare in molti melodrammi. Basti pensare al Tancredi o alla Gazza ladra di Rossini, che contiene un coro (“Tremate, o popoli”) sull’inflessibi­le punizione esemplare inflitta a Ninetta. Pochi sanno che questo inno a una giustizia cieca impression­ò moltissimo Francesco Carrara, il più grande penalista italiano dell’Ottocento. Non è da meno la raffiguraz­ione della giustizia politica del veneziano Consiglio dei Dieci ne I Due Foscari di Verdi.

Nel teatro del Novecento, la vicenda più sconcertan­te la propone Britten con il processo sommario subito da Billy Budd, in cui al silenzio dell’innocente marinaio si contrappon­e l’ingiusta condanna a morte proferita dal capitano Vere in aperta violazione di numerose regole del codice militare di guerra inglese del 1749. Dietro a Britten c’è naturalmen­te il racconto giudiziari­o di Melville. Nell’opera avviene talvolta di vedere messi in scena anche i mali della giustizia civile, come i processi che si trascinano infinitame­nte da un grado all’altro. Il riferiment­o è alla disputa testamenta­ria al centro dell’Affare Makropulos, di cui la protagonis­ta Emilia Marty conosce ovviamente i fatti per averli personalme­nte vissuti nella sua incredibil­e lunga vita. Non per niente il sipario si apre nello studio dell’avvocato di Praga, che da qualche anno cura la causa, ormai centenaria...

L’autore è professore ordinario di Diritto comune all’Università di Milano Bicocca.

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La scena del delitto d’onore in “Luci mie traditrici” di Sciarrino (da un dramma seicentesc­o) al Comunale di Bologna

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