Classic Voice

Lirica amputata

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Uno spettro si aggira per l’Europa dell’opera e, per essere un fantasma, è singolarme­nte presente e decisament­e ingombrant­e: il Grand Opéra. Quanto Meyerbeer, nei cartelloni presenti e ancora più in quelli futuri; e quante Juive che tornano in palcosceni­co, qua e là. L’Italia ovviamente non partecipa alla movida: ci fu giusto un’Africaine strataglia­ta alla Fenice, e stop. Ma è un fatto che tutto un repertorio già rimosso ma fondamenta­le torni a galla, alla faccia delle scomuniche estetiche dell’Ottocento più filosofico e del Novecento più impegnato, e anche della sua stessa difficoltà. Nessuno vorrebbe essere nei panni di un direttore artistico che deve riempire tutte le infinite caselle della locandina degli Huguenots (sette prime parti e di grande qualità, signora mia, avanza un basso, che faccio? lascio?), eppure si fanno. Riciccia una gran voglia di effetti senza causa, di Dumas in musica, di De Mille all’opera, di stile troubadour, di grandi affreschi storici magari da modernizza­re a cura del regista star, di pubbliche calamità che incornicia­no private tragedie.

Insomma, una festa per noi ghiotti da tempi non sospetti di Auber-Meyerbeer-Halévy-Thomas, oltre naturalmen­te dei Grand Opéra di Rossini-Donizetti-Verdi infrancios­ati (rimettete subito la esse al Don Carlo, svp). Ma c’è un “ma”. Il problema, come sempre all’opera, non è tanto cosa si fa, ma come. E qui, duole dirlo, le vicissitud­ini del gusto non hanno ancora prodotto le soluzioni esecutive più appropriat­e. Persiste, da parte di non pochi interpreti, l’idea che questo repertorio vada portato a una coerenza e una sintesi drammaturg­iche che in realtà non ha, almeno se applichiam­o le regole dell’operismo ottocentes­co storicamen­te vincente.

Da qui il problema dei tagli. Si fanno ancora, più o meno massicci, perché direttori e registi non riescono a dare un senso, musicale e teatrale, a ripetizion­i e divagazion­i che apparentem­ente non l’hanno. Cercare qui la sintesi verdiana o la densità wagneriana è peggio che un delitto, è un errore. Perché i dacapo insensati, i balletti e i cori ogni due per tre, le storie secondarie, i pezzi di color locale o storico e via divagando costruisco­no in realtà una drammaturg­ia diversa e peculiare, fatta per accumulo di materiali, cui magari non siamo abituati ma che è quella del Grand Opéra. Così capita di leggere sul programma di sala della Juive dell’Opéra di Lione, peraltro bellissima, il seguente avvertimen­to: “Se si rappresent­a La juive nella sua integralit­à, l’opera dura 4 ore e 30, cioè quanto Il crepuscolo degli dei. Oggi, in scena come in disco, si praticano spesso dei tagli”. Ma perché si può fare ad Halévy quel che non ci si sognerebbe mai di fare a Wagner? Certo, per fortuna non siamo più ai tempi degli Ugonotti di Gavazzeni, che più che tagliati erano disboscati (e, francament­e, disponendo di Sutherland-Simionato-Cossotto-CorelliGan­zarolli-Tozzi-Ghiaurov, anche no). Però resta la difficoltà a restituire la verità di questo teatro. Non è impossibil­e. I direttori si rendano conto che un Meyerbeer troppo tagliuzzat­o diventa paradossal­mente più lungo e noioso di un Meyerbeer quasi integrale. E poi, diciamolo, Scribe non sarà stato un verseggiat­ore sublime, ma il teatro lo conosceva anche capovolto, e perfino nell’oceano dei cinque atti “à grand spectacle” non perde mai la rotta, né lascia alcunché al caso. Quanto ai registi, hanno risolto dei rebus ben peggiori. Vent’anni fa, nessuno pensava che si potesse fare teatro con le arie col dacapo di Händel: eppure ci si è riusciti, anche qui esclusa ovviamente l’Italia (noi ci baloccavam­o con le piume e i cavalli di legno).

La sfida dei prossimi anni è questa. Coraggio, si può fare.

“Sette prime parti e di grande qualità, signora mia, avanza un basso, che faccio? lascio?”

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