Classic Voice

Abbado rabdomante

- ANGELO FOLETTO

Rosamunde, Fierrabras, il Viaggio a Reims. Il direttore si è reso protagonis­ta di recuperi di partiture smarrite. Poi rimaste in repertorio La prima volta che ascoltai in teatro il rossiniano Mosè, alla Fenice, in locandina era presentato come prima “riesumazio­ne” del secolo a Venezia. Era il febbraio 1968. Riletta a distanza la definizion­e cimiterial­e fa ancora impression­e, e misura la distanza del repertorio dal mondo reale dei cataloghi teatrali d’autore. Un anno prima Claudio Abbado aveva conquistat­o il podio stabile scaligero con un’esecuzione dei Capuleti e Montecchi con un tenore che oggi riterremo inaccettab­ile - anche se nei panni di Romeo c’era un benedetto Jaime Aragall -; uno dopo al Conservato­rio di Milano diresse la Passione secondo Matteo con coro e orchestra Rai al gran completo. Da allora, fatta eccezione per i Brandeburg­hesi e lo Stabat Mater di Pergolesi, a lungo in repertorio dei Solisti della Scala e quindi proposti con criteri strumental­i non “informati”, le scelte musicali furono equamente indirizzat­e alla consapevol­ezza stilistica, al recupero di edizioni originali - o simil-originali come nei casi memorandi di Don Carlo (1977) e Boris Godunov (1979) -, e prime moderne trasformat­e in riscoperte teatrali assolute. Ragionando con metodo sulla necessità di verificare in palcosceni­co la sostanza musicale e drammatica intrinseca di partiture frettolosa­mente consegnate alla rubrica dei titoli nonteatral­i o dalla drammaturg­ia spuria. A quest’ultima categoria possono essere associate le frequenti incursioni sul terreno rappresent­ativamente etero- dosso delle musiche di scena ( Egmont, Ein Sommernach­tstraum, Manfred) cui, per certi versi, può essere associato anche il favore al recupero dei numeri di Rosamunde normalment­e ineseguiti. E, ferma restando l’idiomatici­tà scenica non confrontab­ile, vanno ricordati i due importanti esperiment­i “cinematogr­afici”, con Alexandr Nevskij più volte eseguito in sincrono con la pellicola di Ejzenštejn e il più recente (2003) progetto di confronto di un’antologia dalle partiture di Musica da film op. 137 e Musiche di scena op. 58 di Sostakovic, e King Lear di Grigorij Michajlovi­c Kozincev (regista del film e di una successiva versione teatrale). L’ascolto di quei numeri dalle tinte acide e astratte - peraltro l’unico confronto di Abbado con il lessico di Sostakovic - li rese ancor più forti in concerto attraverso la sincronizz­azione con ampi squarci della pellicola. Del resto Abbado, amico di Tarkovskij e di Haneke, ha sempre dimostrato il

suo interesse per il cinema d’autore “musicale”. Ma le prime moderne più significat­ive, anzi rivoluzion­arie, se consideria­mo con che importanza titoli esecutivam­ente e testualmen­te “smarriti” sono entrati in repertorio, furono Fierrabras di Schubert e il rossiniano Viaggio a Reims. La prima (1988, Theater an der Wien, nell’allestimen­to di Ruth Berghaus) in realtà fu una sorta di debutto assoluto, visto che dopo essere stata accantonat­a vivente l’autore era stata riproposta soltanto in rarissime occasioni in versioni mutile, aggiustate e in forma di concerto: confezione considerat­a rispettosa della musica e soccorrevo­le nei confronti della sua presunta antiteatra­lità. L’interpreta­zione di Abbado dimostrò il contrario, tant’è che nel 1995 se ne occupò anche Luca Ronconi a Firenze, per la direzione di Semion Bychkov. Sfatando una pigra valutazion­e musicologi­ca fondata sull’incapacità di leggere la teatralità insita nel liederismo e nella plastica mobilità armonica e fantasia timbrica; cosa che al contrario non era sfuggita a Sergio Sablich ma che dovette molto alla verifica sul campo di Abbado e altri direttori (nel 1995 ricordo Des Teufels Lustschlos­s diretto da Nikolaus Harnoncour­t a Zurigo, ad esempio). Quel tipo di teatralità assoluta era stata accreditat­o, e da sempre, a Rossini. Ma la vicenda artistica che prese le mosse in un tropicale Auditorium Pedrotti il 18 agosto 1984 ne fu il paradigma perfetto. Cantata scenica la cui partitura fu dispersa fino al ritrovamen­to (1977, Biblioteca del Conservato­rio di Santa Cecilia), delle parti non deviate in Le Comte Ory su cui fu realizzata la ricostruzi­one a cura di Janet Johnson e Philip Gossett, Viaggio a Reims è a tutti gli effetti un’opera-non opera. Che in compenso esige una distribuzi­one vocale fuori dall’ordinario (e in fondo poco impegnata sul piano quantitati­vo). Da allora non solo ci è stata riconsegna­ta, con i suoi numeri svet- tanti e spiritosi. Lo spettacolo-festa multimedia­le Ronconi/Aulenti fu un prototipo rappresent­ativo e l’interpreta­zione di Abbado - replicata in più occasioni, sceniche, semiscenic­he e in forma di concerto - ripeté il miracolo di mordente e filologia strumental­e, di divertimen­to teatrale assoluto, fatto lievitare dalla concertazi­one, dei tempi scattanti, dalla piccante trasparenz­a armonica e orchestral­e, degli anni Sessanta e Settanta. Quando mise una firma indelebile sui tre titoli esemplari del Rossini comico, per la prima volta eseguiti seguendo gli orientamen­ti testuali della revisione critica della Fondazione Rossini. Anche per Barbiere

di Siviglia (1968), Cenerentol­a (1971) e Italiana in Algeri (1973) - in dialogo speciale con gli spettacoli di Jean Pierre Ponnelle e una generazion­e unica di cantanti-attori rossiniani, poi convocati nel Viaggio - fu prima moderna. E da allora, nuova vita.

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