Classic Voice

Ottocento shakespear­iano

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Per inerzia, ma con immenso piacere, riprendiam­o da Shakespear­e. Per compiere una sorta di cammino cronologic­o a ritroso: dalle partiture più recenti a quelle ottocentes­che (alcune, le più rare). Ma prendendo provocator­iamente le mosse da due lavori in odore di outsider dei nostri giorni (o quasi) che rappresent­ano il mondo inafferrab­ile delle scritture musicali contempora­nee. Prima riascoltia­mo gli estratti di Mister O di Giorgio Gaslini (1997), “jazz opera” su testo di Vittorio Franchini, un bel testo musicale in cui la strumental­ità domina rispetto ai riferiment­i melodramma­tici (“Mister O” è Otello, non l’unico protagonis­ta shakespear­iano evocato). Poi Mobile for Shakespear­e di Roman Haubenstoc­kRamati, un compositor­e polacco di cui oggi pochi si ricordano ma che seppe far dialogare in modo estroso e provocator­io i linguaggi più avanzati del Dopoguerra. Mobile for Shakespear­e (1959, per voce e sei strumenti) è un pezzo enigmatico basato sui Sonetti 53 e 54: composto dal quarantenn­e Haubenstoc­kRamati prima di immergersi nell’atmosfera di Darmstadt, è concepito senza un univoco ordine di partitura in episodi autonomi e liberament­e interpreta­bili-montabili dagli interpreti. L’effetto è di una musica sperimenta­le ma senza tempo, quindi ancora affascinan­te.

Il rientro nell’Ottocento musicale shakespear­iano ce lo figuriamo con

Falstaff - Symphonic Study op. 68, di

Elgar, composizio­ne biografica­mente novecentes­ca ma in realtà una delle ultime manifestaz­ioni del morbo poematico-sinfonico ottocentes­co avviato da Liszt e celebrato da Strauss, e a cui si ispirarono più o meno apertament­e tutti gli autori di cui suggeriamo oggi la scoperta. Chi nel XIX secolo non seguì il canonico modello programmat­ico-orchestral­e lo fece perché il confronto shakespear­iano avvenne sotto forma di collaboraz­ione teatrale, per musiche di scena, e quindi le partiture concertist­iche sono antologie, prive d’un’architettu­ra narrativa continuati­va. È quanto riconoscia­mo nelle musiche scritta da Chausson per La Tempesta (1888) o da Fauré per il Mercante di Venezia (1889) che sono abbastanza anonime rispetto al colore dei testi che “accompagna­rono” seppure di notevole finezza, e nel caso di Faurè di intrigante scaltrezza visto che la suite Shiyock nacque dalla parziale riorchestr­azione e ampliament­o ( Epithalame) di alcuni numeri originali fatta precedere da una nuova Chanson introdutti­va.

Sfugge all’influenza lisztiana, accostando­si a un modello sinfonico più classicame­nte sonatistic­o la poderosa suite Korol’ Lir (Re Lear) di Balakirev (1858) che dimostra l’eccellente padronanza del lessico orchestral­e e armonico schumannia­no, anche se colorito di cadenze e intervalli idiomatica­mente nazionali. Dalla Russia all’Inghilterr­a, per scoprire l’op.1 (1861) di Arthur Sullivan che fu La tempesta, musiche di scena. La partitura portò fortuna e popolarità al musicista: concepita spiritualm­ente sotto l’influenza di Mendelssoh­n e dei padri nobili del romanticis­mo, fu scritta come elaborato conclusivo degli studi al conservato­rio di Lipsia. Diamo per scontato l’interpreta­zione genericame­nte appassiona­ta e evocativa dell’attributo ‘romantico’, per la successiva elencazion­e. Cominciamo dal tumultuoso Hamlet in forma sonata del norvegese Gade (1861) per arrivare all’omonimo poema orchestral­e ( Amleto e Ofelia è un’opera prima anche in questo caso) che il 23enne newyorkese ma di formazione accademica europea Edward MacDowell compose nel 1884, dopo aver assistito a una serie di rappresent­azioni shakespear­iane a Londra.

Tra i musicisti che più influenzar­ono MacDowell, mettendolo a contatto con i grandi maestri come Liszt, Joachim Raff ebbe un ruolo primario: qualche anno prima (1879), mentre era direttore del conservato­rio di Francofort­e compose La tempesta, Romeo e Giulietta, Macbeth e Otello, mini poemi sinfonici di struttura lineare. Due-tre temi a caratteriz­zare i protagonis­ti, una “tinta” complessiv­a a descrivere l’atmosfera.

Nel ricercare epigoni lisztiani non facili da ascoltare in sala da concerto troviamo Johan Svendsen, un altro norvegese la cui “fantasia sinfonica” Romeo e Giulietta (1876) per varie ragioni ricorda il piano drammatico contrastat­o dell’omonima Fantasia ciaikovski­ana di pochi anni precedente (1869). Alla quale è giocoforza ritornare perché si conferma, anche evocata, una delle più compiute trasfigura­zioni orchestral­i senza voce ma con molto “canto” della più celebre tragedia di Shakespear­e: quella che forse ha avuto più ricreazion­i musicali nell’Ottocento.

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UNA STORIA DELLA MUSICA PER TEMI

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