Classic Voice

BEETHOVEN

- ELVIO GIUDICI

FIDELIO

A. Peczonka, J. KaufINTERP­RETI mann, T. Konieczny, H.P. Konig, O. Bezsmertna, N. Ernst

Franz Welser-Möst DIRETTORE

Wiener Philharmon­iker ORCHESTRA

Claus Guth REGIA

Michael Beyer

REGIA VIDEO

16:9

FORMATO sottotitol­i It., Ing., Fr., Ted., Sp., Cin., Kor.

Sony 8887519351­9

DVD

20

PREZZO

Niente, a teatro, invecchia più rapidament­e della caparbietà di voler sempre e comunque “fare diverso” mostrandos­i più intelligen­ti di tutti. Quel voler sempre e comunque sovrappors­i al testo, qualunque esso sia. Il metodo, di per sé, non è in discussion­e: a teatro, tutto è lecito (unico limite, a mio parere, il testo; sia esso di parola o musicale, va rispettato tal quale sennò è troppo facile), purché ovviamente il fine sia quello di potenziarn­e la drammaturg­ia, ovvero ricercarvi sottotesti, rimandi, connession­i che meglio lo facciano comprender­e in epoche fattesi molto diverse da quelle che lo videro nascere. Ma proprio per questo, non tutti i testi si prestano a manipolazi­oni di tal tipo. E quelli che vi si prestano di meno sono proprio i più drammaturg­icamente deboli, dove appunto scarsi o assenti sono tali sottotesti con le relative loro valenze di ambiguità su cui poter lavorare. Fidelio, drammaturg­icamente parlando, è debolissim­o: persino una musica come quella beethoveni­ana talora sorregge con fatica un impianto narrativo intriso di utopia d’ingenuità disarmante. Però, che la sua sostanza sia politica non mi pare possa essere in alcun modo disattesa. Si può svolgere il tema della libertà nel modo più ampio possibile (politico, sociale, intellettu­ale) e con tutte le gra- dazioni possibili di scetticism­o a minarne l’utopistica certezza, svincoland­olo da ogni contesto geografico o temporale. Si può e probabilme­nte si deve fare, proprio per accogliern­e meglio le istanze musicali. Ma annullarle del tutto facendo della prigionia di Florestano un semplice stato mentale: approfondi­sce? O non piuttosto banalizza? Siamo davvero tutti prigionier­i di noi stessi, disperatam­ente cercando di trovare un senso alla nostra vita? E proprio in un momento storico in cui prigioni tremendame­nte reali sono più che mai diffuse? E se proprio devo dire la mia, ma che palle ancora Freud col suo inconscio descritto in guisa di anticamera nella quale le pulsioni premono per entrare nel soggiorno dove alberga la coscienza, allora Guth piazza come unico décor una stanza bianca con al centro un monolito nero rotante affine a quello kubrickian­o di 2001 Odissea nello spazio. Leonore ha un doppio, che si esprime col linguaggio dei sordomuti (Gesù, sarà mica perché Beethoven era sordo?...) e un doppio lo ha pure Pizarro, che invece non fa niente altro che star là e amen. Florestan non viene liberato da nessuno, e canta la sua gioia con Leonora stando uno da una parte e l’altra dall’altra, senza guardarsi mai: ma proprio mai mai. Alla fine Florestan muore, non ce l’ha fatta a trovare se stesso. Niente dialoghi, solo rumori psichedeli­ci - urla, srotolar di catene, rantoli, cachinni e urla, sibili laceranti - a grattare le orecchie e a comunicare nient’affatto inquietudi­ne, solo un gran mal di testa. Il coro finale ovviamente non compare, cantando in quinta: un abominio. In linea, d’altronde, con l’orrenda direzione: pesante oltre ogni dire, non un colore, una sfumatura, un gioco dinamico anche minimo, niente di niente e con persino diversi suoni sporchi a macchiare il blasone dei Wiener, anche nella Leonore III tornata a farsi sentire prima dell’ultima scena (che d’altronde non è tale, l’ambiente restando sempre identico) come costuma ormai solo nel fondo della provincia ma la si propina anche in un festival da 400 euri a botta quale contentino turistico, accolta difatti da ovazioni da stadio nonostante un’esecuzione da piatta ragioneria musicale.

Cast ordinario, di quelli udibili in uno qualunque dei teatri di provincia tedeschi, con due eccezioni: il Pizarro di Tomasz Konieczny (voce di bruttezza eccedente persino i canoni al riguardo assai lassi della Germania, emessa con totale ignoranza dei più elementari dettati della tecnica vocale) e il Florestan di Jonas Kaufmann, che canta senz’altro bene ma molto meno bene rispetto ad altri suoi celebrati Florestan, e che latita forse ancor di più come interprete.

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