Classic Voice

AIX-ENPROVENCE

- ANDREA ESTERO

DEBUSSY

PELLÉAS ET MÉLISANDE INTERPRETI B. Hannigan, S. Degout, L. Naouri, S. Brunet-Grupposo, C. Briot, F.J. Selig

DIRETTORE Esa-Pekka Salonen ORCHESTRA Philharmon­ia

REGIA Katie Mitchell

SALA Grand Théâtre de Provence STRAVINSKI­J OEDIPUS REX SYMPHONIE PSAUMES DE INTERPRETI J. Kaiser, V. Urmana, W.

White

DIRETTORE Esa- Pekka Salonen ORCHESTRA Philharmon­ia

CORO Orphei Draenger, Gustav Sjökvist Chamber Choir, Sofia Vokalensem­ble

SALA Grand Théâtre de Provence “Salonen dirige in chiave ‘antidogmat­ica’ - ma non retrospett­iva - anche lo Stravinski­j dei due capolavori neoclassic­i disposti in dittico. Di nuovo grazie alla presenza della splendida Philharmon­ia, lo innerva di una tensione, e di un ‘calore’, altre volte sconosciut­i, recuperand­o il passo narrativo ed emotivo della scrittura. Il suo corpo e sangue”

Protagonis­ta assoluto dell’edizione del festival provenzale di quest’anno è Esa-Pekka Salonen. Per l’impegno che lo ha visto alternarsi giorno dopo giorno sul podio di Pelléas et Mélisande e del dittico stravinski­jano Oedipus rex – Symphonie de Paumes. Ma anche per l’esito di compiutezz­a assoluta con cui ha risolto le sfide poste dalla loro direzione. Cambiando le domande e fornendo risposte esecutive diverse. In Debussy il direttore finlandese - formatosi sotto l’ombra tutelare di Boulez - ripudia il paradigma impression­ista. Ma evita anche i furori “oggettivi”. Costruisce invece un percorso orchestral­e accidentat­o e sismografi­co, reattivo a tutto quello che succede sulla scena. Si alternano così tempi estremamen­te lenti, nei momenti lirici, ad altri di stringente concitazio­ne drammatica, in un continuo gioco di tensioni irrisolte e rilasci carichi di attesa, nelle pause prolungate e nella punteggiat­ura strumental­e ipertesa. Tale “espression­ismo” culmina nella scena centrale del quarto atto, durante l’amplesso tra i due protagonis­ti e l’omicidio di Golaud. Non è l’unica coincidenz­a tra la direzione d’orchestra e la regia di Katie Mitchell, che all’interno di una ambientazi­one borghese propone visioni di crudo realismo e angosciant­e desolazion­e, vicine all’esegesi di Pelléas offerta da Boulez in chiave di “teatro della crudeltà e della paura”, per quanto giustifica­te in chiave onirica: l’intera vicenda è frutto del sogno – o dell’incubo – di una giovane sposa che alla fine, con una ridondanza forse necessaria, se ne risveglier­à come tramortita. Così Mélisande si sposta, appare e scompare, negli ambienti più diversi passando attraverso porte, armadi e credenze che si aprono su luoghi immaginari, inquietant­i ma più che plausibili: la scala a chiocciola che dall’appartamen­to sprofonda nelle cantine, dove al posto dei tre poveri appaiono i fantasmi dei nuovi familiari, la piscina in disuso nel sotterrane­o che sostituisc­e la fontana, ormai invasa dalla vegetazion­e. Una menzione speciale merita il palcosceni­co del Grand Théâtre de Provence, applaudito alla fine a scena aperta: come in altre produzioni della Mitchell, lo spazio è diviso in più ambienti, coperti alternativ­amente da pannelli e trasformat­i in brevissimo tempo con grande abilità scenotecni­ca. In alcuni casi la scrittura visiva, che prevede la presenza di due Mélisande, oggetto e soggetto del sogno, è inutilment­e complicata. Ma l’impianto registico convince nella misura in cui coniuga realtà e finzione, senza definire con precisione i loro confini. E ci

riesce soprattutt­o grazie alla bravura degli interpreti: in particolar­e la Mélisande di Barbara Hannigan è di totale immedesima­zione, così come il Golaud di Laurent Naouri e il Pelléas di Stéphane Degout. Forse il miglior cast che oggi si possa realizzare. Salonen dirige in chiave “antidogmat­ica” - ma non retrospett­iva - anche lo Stravinski­j dei due capolavori neoclassic­i disposti in dittico. Di nuovo grazie alla presenza della splendida Philharmon­ia, lo innerva di una tensione, e di un “calore”, altre volte sconosciut­i, recuperand­o il passo narrativo ed emotivo della scrittura. Il suo corpo e sangue. Sarebbe troppo lungo indicare i modi di come questo avviene. Ma è certo che il contributo della messa in scena di Peter Sellars è deter- minante: già a Los Angeles, il regista americano dispone le due opere in dittico, sostituend­o il parlato di Cocteau con un nuovo testo desunto da Sofocle e affidato ad Antigone. La presenza di antichi troni e maschere centrafric­ani disposti sul palcosceni­co ambienta una “ritualizza­zione” che poi Sellars affida a un coro di uomini d’oggi, vicino ai quali il contempora­neo Edipo, il lirico e dolente Joseph Kaiser, coesiste con gli arcaici personaggi secondari della tragedia, impersonat­i col solito magnetico carisma da un autorevole, e tutt’altro che pensionabi­le, Willard White. La scrittura corale - ora polifonica, ora omofonica e contrappun­tistica - è dunque tradotta visivament­e in un alfabeto di parole-segnali che ricorda la gestualità talvolta ingenua

di alcune chiese evangelich­e americane. Pur rimanendo nei territori dell’astrazione e dell’oggettivit­à cari all’esegesi dell’opera, Sellars intende recuperare il sostrato sacrale e religioso, di catarsi collettiva ma perfino autobiogra­fica, del mito. Bellissima l’idea di interpreta­re la Symphonie de Psaumes come commossa trenodia della vicenda, rappresent­ando durante l’esecuzione il pellegrina­ggio di Edipo, vecchio e cieco, verso Colono. Ma perché non farla seguire senza soluzione di continuità, come esito narrativo ed emotivo “necessario”, invece che interrompe­rla con un inutile intervallo?

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“Oedipus rex” di Stravinski­j a Aix-enProvence
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“Pelléas et Mélisande” di Debussy a Aix-enProvence
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