AIX-ENPROVENCE
DEBUSSY
PELLÉAS ET MÉLISANDE INTERPRETI B. Hannigan, S. Degout, L. Naouri, S. Brunet-Grupposo, C. Briot, F.J. Selig
DIRETTORE Esa-Pekka Salonen ORCHESTRA Philharmonia
REGIA Katie Mitchell
SALA Grand Théâtre de Provence STRAVINSKIJ OEDIPUS REX SYMPHONIE PSAUMES DE INTERPRETI J. Kaiser, V. Urmana, W.
White
DIRETTORE Esa- Pekka Salonen ORCHESTRA Philharmonia
CORO Orphei Draenger, Gustav Sjökvist Chamber Choir, Sofia Vokalensemble
SALA Grand Théâtre de Provence “Salonen dirige in chiave ‘antidogmatica’ - ma non retrospettiva - anche lo Stravinskij dei due capolavori neoclassici disposti in dittico. Di nuovo grazie alla presenza della splendida Philharmonia, lo innerva di una tensione, e di un ‘calore’, altre volte sconosciuti, recuperando il passo narrativo ed emotivo della scrittura. Il suo corpo e sangue”
Protagonista assoluto dell’edizione del festival provenzale di quest’anno è Esa-Pekka Salonen. Per l’impegno che lo ha visto alternarsi giorno dopo giorno sul podio di Pelléas et Mélisande e del dittico stravinskijano Oedipus rex – Symphonie de Paumes. Ma anche per l’esito di compiutezza assoluta con cui ha risolto le sfide poste dalla loro direzione. Cambiando le domande e fornendo risposte esecutive diverse. In Debussy il direttore finlandese - formatosi sotto l’ombra tutelare di Boulez - ripudia il paradigma impressionista. Ma evita anche i furori “oggettivi”. Costruisce invece un percorso orchestrale accidentato e sismografico, reattivo a tutto quello che succede sulla scena. Si alternano così tempi estremamente lenti, nei momenti lirici, ad altri di stringente concitazione drammatica, in un continuo gioco di tensioni irrisolte e rilasci carichi di attesa, nelle pause prolungate e nella punteggiatura strumentale ipertesa. Tale “espressionismo” culmina nella scena centrale del quarto atto, durante l’amplesso tra i due protagonisti e l’omicidio di Golaud. Non è l’unica coincidenza tra la direzione d’orchestra e la regia di Katie Mitchell, che all’interno di una ambientazione borghese propone visioni di crudo realismo e angosciante desolazione, vicine all’esegesi di Pelléas offerta da Boulez in chiave di “teatro della crudeltà e della paura”, per quanto giustificate in chiave onirica: l’intera vicenda è frutto del sogno – o dell’incubo – di una giovane sposa che alla fine, con una ridondanza forse necessaria, se ne risveglierà come tramortita. Così Mélisande si sposta, appare e scompare, negli ambienti più diversi passando attraverso porte, armadi e credenze che si aprono su luoghi immaginari, inquietanti ma più che plausibili: la scala a chiocciola che dall’appartamento sprofonda nelle cantine, dove al posto dei tre poveri appaiono i fantasmi dei nuovi familiari, la piscina in disuso nel sotterraneo che sostituisce la fontana, ormai invasa dalla vegetazione. Una menzione speciale merita il palcoscenico del Grand Théâtre de Provence, applaudito alla fine a scena aperta: come in altre produzioni della Mitchell, lo spazio è diviso in più ambienti, coperti alternativamente da pannelli e trasformati in brevissimo tempo con grande abilità scenotecnica. In alcuni casi la scrittura visiva, che prevede la presenza di due Mélisande, oggetto e soggetto del sogno, è inutilmente complicata. Ma l’impianto registico convince nella misura in cui coniuga realtà e finzione, senza definire con precisione i loro confini. E ci
riesce soprattutto grazie alla bravura degli interpreti: in particolare la Mélisande di Barbara Hannigan è di totale immedesimazione, così come il Golaud di Laurent Naouri e il Pelléas di Stéphane Degout. Forse il miglior cast che oggi si possa realizzare. Salonen dirige in chiave “antidogmatica” - ma non retrospettiva - anche lo Stravinskij dei due capolavori neoclassici disposti in dittico. Di nuovo grazie alla presenza della splendida Philharmonia, lo innerva di una tensione, e di un “calore”, altre volte sconosciuti, recuperando il passo narrativo ed emotivo della scrittura. Il suo corpo e sangue. Sarebbe troppo lungo indicare i modi di come questo avviene. Ma è certo che il contributo della messa in scena di Peter Sellars è deter- minante: già a Los Angeles, il regista americano dispone le due opere in dittico, sostituendo il parlato di Cocteau con un nuovo testo desunto da Sofocle e affidato ad Antigone. La presenza di antichi troni e maschere centrafricani disposti sul palcoscenico ambienta una “ritualizzazione” che poi Sellars affida a un coro di uomini d’oggi, vicino ai quali il contemporaneo Edipo, il lirico e dolente Joseph Kaiser, coesiste con gli arcaici personaggi secondari della tragedia, impersonati col solito magnetico carisma da un autorevole, e tutt’altro che pensionabile, Willard White. La scrittura corale - ora polifonica, ora omofonica e contrappuntistica - è dunque tradotta visivamente in un alfabeto di parole-segnali che ricorda la gestualità talvolta ingenua
di alcune chiese evangeliche americane. Pur rimanendo nei territori dell’astrazione e dell’oggettività cari all’esegesi dell’opera, Sellars intende recuperare il sostrato sacrale e religioso, di catarsi collettiva ma perfino autobiografica, del mito. Bellissima l’idea di interpretare la Symphonie de Psaumes come commossa trenodia della vicenda, rappresentando durante l’esecuzione il pellegrinaggio di Edipo, vecchio e cieco, verso Colono. Ma perché non farla seguire senza soluzione di continuità, come esito narrativo ed emotivo “necessario”, invece che interromperla con un inutile intervallo?