DOSSIER - IL CONVEGNO
Bellezza, coerenza e ” tradimento” delle prescrizioni d’autore. Lo teorizza il grande studioso Jean- Jacques Nattiez. E lo conferma lo svolgimento di un convegno internazionale sulla regia wagneriana. Illudersi di rispettarle è un’utopia
Bellezza, coerenza e ”tradimento” delle prescrizioni d’autore. Lo teorizza Jean-Jacques Nattiez. Illudersi di rispettarle è un’utopia
Mettere in scena Wagner. Ovvero come si rappresenta il teatro musicale nella sua manifestazione più complessa e ambiziosa. Se ne è discusso per tre giorni fra il Teatro alla Scala e Palazzo Reale. E l’occasione, che riassumiamo in queste pagine, è stata ghiotta per affrontare il problema della messa in scena tout-court: Wagner infatti è il ”fondatore” del pensiero registico moderno. Non solo operistico. A Milano lo si è fatto fuori dalle polemiche che regolarmente si scatenano dopo allestimenti creativi. Pur senza dimenticare, e denunciare, i casi più eclatanti di trash registico: quello che i francesi chiamano ”malscène”. Ma anche senza far finta di ignorare che il passaggio dal testo (librettistico, musicale ecc.) al palcoscenico è per ogni teatrante un salto rischioso e senza paracadute: dalle indicazioni dell’autore (a volte imprecise, altre volte ipotetiche) alla concretezza di ambienti, posizioni, gesti, relazioni che nessuno ha mai definito una volta per tutte. E che fatalmente - dato che le arti performative vivono in una perenne dimensione presente (l’oggi, l’adesso, in cui un testo viene rappresentano) - è sempre diverso e in continua trasformazione. Come d’altra parte lo è la stessa pratica dell’interpretazione musicale.
Elogio dell’infedeltà
Ad aprire le sessioni, e a dare l’impronta al convegno, la relazione di
Jean-Jacques Nattiez, semiologo e musicologo di fama internazionale, che ha spiegato: ”A differenza del libretto e della musica di un’opera, per i quali il testo e la partitura garantiscono una certa stabilità, la messinscena operistica costituisce una vera e propria ri-creazione dell’opera e allo stesso tempo ne rende possibile l’esistenza come opera teatrale. Tuttavia”, ha detto Nattiez, ”a ogni nuova gene-
razione, la distanza fra i propositi del regista e l’opera originaria si accresce e si pone l’immancabile questione della ’fedeltà’ al compositore, espressa spesso in termini critici, polemici e accusatori. In quale misura i registi sono stati fedeli (oppure no) alle intenzioni del compositore? Cosa ne è del legame tra la scena e la musica? Vi è stato un tradimento dello ’spirito’ e della ’sostanza’ dell’opera?”. Nattiez ha proposto allora un certo numero di nozioni teoriche utili a definire il funzionamento delle messinscena operistiche. Per esempio, dice: ”è inevitabile che il regista sia obbligato a compiere delle scelte fra le mille possibilità di messinscena e non esiste nessun allestimento che si possa dire interamente fedele alle intenzioni del compositore”, teorizzando ”la necessità in cui a volte si trova il regista di non seguire alla lettera la narrazione operistica, bensì di modificarla al fine di renderla interessante o comprensibile al pubblico contemporaneo”. Maurizio Gia
ni, professore di estetica musicale all’Università di Bologna, sulla scorta di un’analisi di vari passi di Opera e dramma e di scritti di Wagner che trattano l’allestimento di alcune sue opere, ha proposto una riflessione sulla concezione gestuale della musica applicata al dramma, che stabilisce una corrispondenza precisa tra la “melodia orchestrale” e il gesto scenico. ”Wagner”, dice, ”si spinge sino a sostenere che quest’ultimo in determinati casi è la ’sostanza’ ( Hauptsache) , il vero motivo drammatico, mentre la frase in orchestra è la ’cosa secondaria’ ( Nebensache) , l’accompagnamento di quel motivo. Se il regista non coglie questo nesso e non si regola di conseguenza nel lavoro con i cantanti, la frase in orchestra si troverà in un rapporto rovesciato rispetto all’azione, creerà un effetto puramente musicale, spezzando l’unità organica dell’insieme”.
Questa concezione, oltre a ispirarsi al teatro di prosa (il Drama del titolo del testo firmato da Wagner), richiama l’idea wagneriana di ”opera d’arte totale”, che il filosofo Roberto Dioda
to ha aggiornato all’oggi, negli anni del tramonto concettuale dei generi artistici e con la diffusione delle arti performative, notando la sua persistente attualità: ”Essa si incrocia con le ricerche sulle nozioni di immersività e interattività consentite dalle tecnologie digitali e con la trasformazione dello spettatore in agente dell’operazione artistica nel suo complesso”. Il germanista Quirino Principe ha tirato le somme della prima giornata individuando la centralità del cantante-attore per la riuscita di un allestimento wagneriano, il suo compito di fronte alle ”forze cosmiche” che lo stesso dramma wagneriano sprigiona. ”È possibile far sì che anche l’attore implicito nel cantante raggiunga tale consapevolezza e la conseguente energia deíttica, iconica, semantica”?, si è chiesto. ”La risposta è sì, purché l’attore acquisti la certezza che la ’energia di significato totale’ è direttamente proporzionale a un sapere che quasi sempre manca all’attore, le cui conoscenze sono per lo più frutto di vita vissuta, di letture occasionali e irrelate, superficiali, frettolose e
trascinate da finalità pratiche. Più che un diligente studio, che di rado mette radici, è necessaria una ’Bildung’ che conduca l’attore wagneriano (ma spesso anche il noto cantante-attore, anche il regista o lo scenografo o il costumista o l’illuminotecnico…) dallo stato di scandalosa e inaccettabile ignoranza persino del libretto a una progressiva conoscenza del nesso librettista-compositore, verso le radici letterarie o storiche del testo, e, importantissimo (e rarissimo!) verso i ’topoi’ e gli archetipi e le symbolische Formen sempre lampeggianti alle origini”.
Il fantasma di Hitler
Dopo la sessione teorica, è il turno il giorno dopo di quella storica, iniziata con la relazione di base di Patrick Carnegy, autore dello strabiliante Wagner and the Art of the Theatre (Yale, 2006), che ha ripercorso le direttrici della messa in scena wagneriana del secondo Novecento, partendo dal secondo dopoguerra tedesco e dal fantasma di un wagneriano ingombrante, Adolf Hitler. ”Dopo la guerra, nella ancor divisa Germania, emersero due principali strategie”, ha detto. “Nella Germania occidentale la strategia dominata da Wieland Wagner fu inizialmente quella di cercare di de-politicizzare le opere di Wagner concentrandosi sui loro aspetti psicologici. Esse non trattavano del Potere e del suo abuso da parte degli eroi nordici e germanici, bensì di semplici metafore della psiche umana. Nella Germania orientale, sotto il controllo del marxismo socialista, le opere di Wagner furono invece ri-politicizzate. Wagner, il rivoluzionario del 1849, fu riesumato e il Ring presentato come un’allegoria di tutti i mali del capitalismo del XIX secolo. Questa chiave interpretativa è presente in buona parte all’interno del famoso allestimento del centenario del Ring diretto da Chéreau. Con esso il cammino verso il post-moderno fu segnato”.
Martin Knust, che si è occupato a lungo della gestualità dei cantanti all’epoca di Wagner, ha illustrato con il supporto di documenti iconografici e filmici (dei primi del Novecento) queste modalità con le quali ”spesso la sua musica è in stretta correlazione”, ha precisato, “tanto che alcune parti delle sue partiture finiscono per essere un’amplificazione della gestualità tipica della sua epoca”. Anche se la distanza tra il modo di recitare ottocentesco e quello presente rende di fatto impossibile proporre oggi un “restauro” gestuale in scena.
Se lo spettacolo è un testo
Due interventi storico-teorici hanno tematizzato il rapporto tra l’eredità “registica” di Wagner e le avanguardie teatrali della prima e della seconda metà del Novecento. Secondo Francesco Ceraolo, giovane studioso e filosofo dell’immaginario visivo, “l’estetica wagneriana rappresenta il gesto fondativo del concetto di regia, ovvero il momento in cui la prassi teatrale avverte l’esigenza di fondarsi a partire da un atto performativo, di cui il regista è il reggente, e non più solo dall’eternità del testo musicale e drammaturgico, di cui invece è responsabile l’autore”, mentre il grande semiologo del teatro Marco De Marinis ha notato che ”l’estetica wagneriana del Gesamtkun
stwerk ha fornito alla regia teatrale uno dei modelli più forti e diffusi, quello della sintesi scenica, declinata secondo due modalità principali, testocentrica e scenocentrica”. Qui andiamo oltre l’infedeltà ”buona” teorizzata da Nattiez. Con De Marinis la ”partitura visiva” è addirittura autonoma, come nel teatro di prosa scorre per conto suo. E uno spettacolo sarà riuscito quando è globalmente corente, efficace, in sintonia con lo spirito d’autore: non se ”obbedisce al testo” momento dopo momento. Anche perché quel testo - la musica, le parole - lo ingloba al suo interno: non sono le classiche ”istruzioni per l’uso”.
Marco Brighenti, filosofo e musicologo, autore di un recente volume sugli scritti di Wagner, ha infine analizzato come alcuni grandi registi contemporanei abbiano messo in luce, attraverso scelte registiche originali, alcune aporie irrisolte del teatro wagneriano. ”Se al gesto Wagner attribuisce la facoltà di esprimere indirettamen
te il sentimento interiore di un determinato personaggio in una determinata situazione, alla musica riserva la capacità di manifestare direttamente l’universalità di quello stesso sentimento. Come è possibile che il rapporto tra gesto e musica sia allora di perfetta analogia e parallelismo, come Wagner sostiene in più punti di Opera e dramma? In alcuni momenti del teatro di Wagner la potenza universalizzante della musica si dilata al punto che pare svincolarsi da ogni gestualità realistica”.
Fallimenti di successo
La seconda parte della seconda giornata è stata dedicata a casi specifici di regia wagneriana in diversi contesti culturali. Jürgen Maehder, professore di musicologia nell’Università della Svizzera italiana, ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’Anello di Chéreau ha in parte offuscato altre produzioni wagneriane tedesche dello stesso periodo e sostenuto che ”bisognerebbe invece ricostruire le numerose tappe della graduale dissociazione della regia wagneriana dalle minuziose istruzioni registiche del poeta-compositore“, come ha tentato di fare nel corso del suo intervento, dove ha analizzato allestimenti di August Everding, Götz Friedrich, Harry Kupfer, Jean-Pierre Ponnelle, Sir Peter Hall.
Kii-Ming Lo, professoressa di musicologia a Taipei, si è spinta fino ad anni più recenti, guardando soprattutto alla varietà stilistica esplosa, letteralmente, nella Bayreuth degli anni Novanta, trasformata da santuario a vero laboratorio teatrale.
Fra gli altri casi wagneriani, quello tutto italiano dei ”fallimenti di successo alla Scala” indagato dal musicologo
Marco Targa, che ha messo in relazione il Tristano di Appia voluto da Toscanini nel 1923 ( ma ostacolato dalla macchina teatrale scaligera, fino alle dimissioni anticipate del grande regista) e il Ring di Ronconi bloccato da Sawallisch nel 1975, che fu completato anni dopo al Maggio fiorentino. ”Il tratto che accomuna queste due importanti esperienze registiche, per molti aspetti fra loro molto lontane, è che entrambe non furono comprese né dal pubblico né, con pochissime eccezioni, dalla critica”, ha rimarcato Targa, ”ma il loro carattere di incompiutezza non impedì però a entrambe di lasciare un segno indelebile nella storia della messinscena wagneriana”.
Ejzenštejn e la Valchiria
Infine due casi di regie wagneriane periferiche ma a loro modo storiche: La Valchiria messa in scena nel 1939 dal grande Sergej M. Ejzenštejn al Teatro Bolshoj di Mosca ricostruita dallo studioso di cinema Antonio Somai
ni. ”Lo spettacolo, programmato nel quadro delle celebrazioni del patto di non-aggressione tra Unione Sovietica e Germania nazista noto come Patto Molotov-Ribbentrop, diede ad Ejzenštejn l‘occasione di confrontarsi di nuovo con la regia teatrale dopo più di quindici anni di attività nel campo del cinema, dove”, ha ricordato Somaini, ”il regista sovietico ebbe modo di sviluppare quel montaggio di Leitmotive che aveva già sperimentato nel film Aleksandr Nevskij e che avrebbe ripreso in Ivan il Terribile”. L’altra esperienza, che ha aperto a Wagner i territori sconosciuti ma promettenti del teatro scandinavo, è quella raccontata dallo storico del teatro
Franco Perrelli. “Ludvig Josephson, il più importante dei protoregisti nordici, fu uno dei primi uomini di scena a registrare nel Nord Europa la novità delle idee di Wagner, almeno dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, a diffonderne le teorie e a discuterle criticamente”.
Sbeffeggiare Wagner?
Dalla teoria e storia alla prassi contemporanea. Nell’ultima giornata Katherine Syer ha spiegato come attraverso il nuovo teatro musicale Wagner sia diventato da qualche anno a questa parte un autore ”globale”, eseguito in tutte le parti del mondo, anche quelle - dall’Estremo Oriente alle altre periferie del mondo - dove non era presente una tradizione wagneriana. ”Lo si può vedere facilmente guardando all’enorme numero di Tetralogie complete che sono apparse negli ultimi vent’anni”, ha sostenuto la musicologa americana, che ha richiamato i principali allestimenti del Ring degli anni Duemila, nonché alcuni approcci revisionisti ai Maestri cantori di Norimberga. Questa relazione ha provocato un dibattito che si è svolto, alimentandola, nella successiva tavolta rotonda, moderata dal direttore del nostro giornale Andrea Estero e dedicata ai vari aspetti del mettere in scena oggi Wagner: artistici, gestionali, economici e organizzativi. Come lavora concretamente il regista? Come reagisce il cantante alle indicazione registiche? Qual è in Germania il ruolo del Dramaturg, qual è stata la sua funzione nel recente Ring della Scala, un teatro che normalmente non prevede questa figura? E quante risorse economiche servono per allestire un’opera di Wagner? Ne hanno parlato il regista Denis Krief, il cantante Albert Dohmen, il direttore d’orchestra Gustav Kuhn, il drammaturgo Markus Wyler, il direttore artistico Gaston Fournier, l’economista Antonio Cognata e la psicoanalista Almatea Usuelli, grazie anche alle domande di Angelo Foletto, Elvio Giudici e Anna Girardi. Il musicologo Guido Salvetti, presidente del comitato organizzatore, ha tratto le conclusioni: ”A nessuno dovrebbe rimanere il dubbio che si possano ancora ricostituire fedelmente gli allestimenti curati dall’autore. A tutti è risultato chiaro che un grado maggiore o minore di infedeltà è sia inevitabile (per via delle subentrate differenze dei contesti culturali, sociali, tecnologici), sia auspicabile, per tutti i casi in cui il tempo e l’intelligenza degli interpreti hanno permesso di rivelare la ricchezza di significati implicita nel testo wagneriano”. Ma il vero discrimine, secondo Salvetti, risiede nella intenzionalità di queste scelte: l’infedeltà è frutto di una ricerca in profondità, che produce valore, o della mera attitudine a “sbeffeggiare Wagner”?