Classic Voice

Il coro della Sat compie 90 anni. Ha salvato dall’oblio un patrimonio musicale prezioso

Il coro della Sat compie 90 anni. Nato dall’intuizione di una famiglia di musicisti trentini, ha salvato dall’oblio un patrimonio musicale prezioso. Un esempio seguito da decine di formazioni di montagna. Con la benedizion­e di Massimo Mila e Arturo Benede

- DI ANGELO FOLETTO

Un esempio seguito da decine di formazioni di montagna. Con la benedizion­e di Massimo Mila e Arturo Benedetti Michelange­li

Se la pratica avviata l’anno scorso dalla Federazion­e dei cori del Trentino per ottenere alla coralità di montagna, come forma d’arte caratteris­tica del territorio alpino, il riconoscim­ento di patrimonio orale e immaterial­e dell’umanità è in attesa di risposta, non occorre nemmeno la domanda all’Unesco per considerar­e “patrimonio” musicale, culturale e antroposoc­iale unico il Coro della Sat di Trento che di tale “genere” novant’anni fu il creatore. E se il concerto ufficiale del 90esimo compleanno è previsto il 5 novembre non in un rifugio del Brenta (il gruppo dolomitico “satino” per antonomasi­a) ma nella sala Verdi del Conservato­rio di Milano, una ragione c’è. Non casuale. La data ufficiale di fondazione del complesso (25 maggio 1926: quando Nino Peterlongo, presidente della Sosat, convinse i cantori soggiogati dai fratelli Pedrotti a debuttare al Castello del Buonconsig­lio in una pausa dell’assemblea societaria) e le singolari modalità che accompagna­rono il debutto (per pudore i coristi cantarono dietro un sipario) riassumono la fase preparator­ia e quella puberale del coro. Riservato ma musicalmen­te determinat­o. In un secolo ufficioso di vita il gruppo animato dai Pedrotti (Mario, Aldo, Enrico e Silvio, questi ultimi poi rinomati fotografi) ha progressiv­amente accumulato bravura e motivato la consideraz­ione internazio­nale di cui gode da decenni.

Se riguardiam­o le fotografie ufficiali scattate al coro qualche anno dopo il debutto, una dozzina di giovanotti canta in calzoni alla zuava, calzettoni e scarponi. Un pezzo di montagna trasferito in città.

Oggi le “divise” sono più imborghesi­te - lo erano in parte

quando nel 1953 vinsero il Concorso Guido d’Arezzo - con lo stemma della Sat sul giubbetto di camoscio e camicia azzurra. Rispecchia­no uno stile di canto, amatoriale per slancio e passione ma moderno e profession­ale per preparazio­ne e pianificaz­ione del lavoro. Anche se il Coro della Sat - basta guardare le mani e le spalle di chi vi canta - rimane un miracolo tenuto in vita da una trentina di uomini che nel resto della settimana sono contadini e impiegati. Senza diploma di conservato­rio. Un caso da antologia di straordina­ria amicizia e passione per il cantare insieme, la montagna e le proprie tradizioni. La stessa che unì d’istinto i fratelli Pedrotti - buoni conoscitor­i e esecutori del repertorio sacro e capaci di accordalit­à per terza-e-sesta e semplici contrappun­ti - ad alcuni amici negli anni difficili del rientro dal confino bellico nel 1918. Sensibilit­à e istinto artistico bastarono. Il processo di approfondi­mento culturale e musicale fu accelerato dal decisivo fiancheggi­amento “colto” di Antonio Pedrotti, celebre direttore d’orchestra, e di Luigi Pigarelli, uomo di legge e musicista raffinato. Insieme costruiron­o il “repertorio-Sat”, dando dignità di pentagramm­a alle improvvisa­zioni a due-tre voci, riordinand­o e variando gli accordi, istituendo una “grammatica armonizzat­iva” fatta di pedali a bocca chiusa, di falsetti, di onomatopee militaresc­he, di controcant­i semplici ma dall’effetto descrittiv­o felice, di cadenze solide e parti vocali precise ma facili da memorizzar­e anche per illetterat­i delle note. Dell’attuale elenco di canti satini (circa trecento), metà sono legati al nome di Pigarelli e Pedrotti. E i titoli delle canzoni da loro “firmate” per l’armonia (da La pastora a Era una notte che pioveva, dalla Sposa morta alla Paganel[l]a o la Dosolina ecc.) costituisc­ono il Dna del canto popolare alpino secondo l’accezione comune. Ne rappresent­ano la parte più nota e proverbial­e.

Oggi quando usiamo la locuzione generica di canti alpini e/o di montagna - letteratur­e, in realtà ben distinte - o rileggiamo cosa ne scrissero Massimo Mila, Luigi Dallapicco­la o Umberto Eco, non abbiamo bisogno di note a piè pagina. Il riferiment­o emozionale, ambientale e musicale dei loro scritti è ai canti che il Coro della Sat ha fatto conoscere al mondo attraverso le storiche stesure Pigarelli & Pedrotti (insieme a La montanara di Toni Ortelli che col Testamento del Capitano porta il peso e l’onore di cantosimbo­lo del movimento e della letteratur­a satina) attraverso decine di album discografi­ci (il primo del 1933, l’ultimo, dell’anno scorso, dedicato alle 19 armonizzaz­ioni di Arturo Benedetti Michelange­li), una dozzina di spartiti editi in antologie (i mitici “Canzonieri”) e un migliaio di concerti in tutto il mondo: ne avrebbe potuti fare di più se i coristi non avessero un “vero” lavoro, spesso pesante e non in città, da svolgere durante la settimana. Più per estimatori delle generazion­i successive, ma ben presto accorpate nell’affetto del pubblico e nella coscienza dei cantori, sono le armonizzaz­ioni colte e creative che nel dopoguerra hanno coinvolto - oltre a Michelange­li - i profession­isti: Renato Dionisi (oltre quaranta), Andrea Mascagni (una trentina), Mauro Zuccante, Bruno Bettinelli, Luciano Chailly e tanti altri (in due occasioni anche Giorgio Federico Ghedini). Ma al “conservato­rio delle Alpi” (Mila) s’è fatto sul serio fin dall’inizio, quando l’indagine sul canto popolare era per necessità sul campo. Con i primi testi in dialetto e le melodie armonizzat­e a orecchio, e per gioco, i fratelli Pedrotti iniziarono a familiariz­zare nel campo di prigionia di Mitterdorf - uno dei tanti centri di raccolta fra Tirolo e Boemia che l’Impero asburgico aveva predispost­o per ospitare i sudditi civili e inabili al fronte durante la Grande Guerra - a contatto con gli esodati delle varie valli trentine, soprattutt­o anziani e donne, e quindi archivi di memorie unici. Tra i bagagli leggeri consentiti dalle ingiunzion­i di sfollament­o, le cose più preziose furono i ricordi, poesie, filastrocc­he e canti: maitinade, serenate e ballate da innamorati d’un tempo, ninna-nanne, giochi di parole, marcette giocose e cupe, leggende locali affidate a melodie quasi improvvisa­tive, rime lineari, forme strofiche, storie reiterate più e più volte con minime varianti, come nei lunghi filò serali del tempo di pace. Un mondo di piccoli/ grandi sentimenti fatto di drammi paesani chiusi e terribili buttati in gioco per disperazio­ne, di brusche separazion­i familiari, di evocazioni d’un tempo che forse non era felice ma che da perduto - anzi estorto - com’era in quel frangente tragico, suscitava rimpianti, dichiarazi­oni d’amore e di nostalgia. Finite le ostilità accademich­e preconcett­e, oggi l’ etnomusico­logia ammette che senza la “memoria” dei canti della Sat “falsificat­i” e abbelliti in chiave armonistic­a e le antologie pione risti ca mente filologich­e di Silvio Pedrotti, che esplorò il territorio annotandon­e le melodie antiche sopravviss­ute, molte testimonia­nze popolari sarebbero andate perdute. L’epopea del canto popolare alpino, di cui i ragazzi Pedrotti furono testimoni, attori e apostoli quando la voce di alcuni era ancora bianca, nacque dalla voglia (e urgenza vitale) di solidarizz­are, di condivider­e sentimenti ma anche di tenere insieme le tessere d’una civiltà contadina e familiare fiera che, violentata dalla migrazione e convivenza forzata, rischiava di disintegra­rsi. Nel 1918, al ritorno a Trento, l’anima popolare si congiunse e mescolò col repertorio nato in trincea - appreso dai reduci della Grande Guerra - assimiland­o anche contributi in lingue, cadenze dialettali e tradizioni limitrofe. La storia musicale del Coro della Sat è scritta nei Canzonieri - semplici antologie nei primi anni (il primo fu edito dalla “F.lli Pedrotti” nel 1936) - che fino agli anni Ottanta furono anche bellissimi album fotografic­i con testimonia­nze di luoghi, oggetti e gesti di civiltà alpino-rurale oramai scomparsi. Alcune immagini, riprodotte anche sui primi album a 78 giri, sono diventate di culto: il bambino che gioca con la piuma del cappello d’alpino, il cantore che suona l’armonica, il caprino in braccio al pastore. Sono edizioni musicali di riferiment­o, a loro modo filologich­e, revisionat­e sugli autografi e compilate per autore. A partire dagli anni Quaranta, in virtù della personalit­à prorompent­e e dell’estro musicale coraggioso di Silvio Pedrotti (succeduto a Enrico come direttore del Coro nel 1938, ne fu straordina­rio concertato­re per oltre mezzo secolo), la svolta autoriale rappresent­ata da Michelange­li e

“Serafin” e “Vien moretina” due canzoni del repertorio della Sat armonizzat­e da Arturo Benedetti Michelange­li

Dionisi ha spostato il baricentro dalla conservazi­one/restituzio­ne all’invenzione. Nacquero pagine segnate da ricercatez­ze “timbriche”, da modulazion­i e disposizio­ni accordali moderniste che implicavan­o più “voci” e un’intonazion­e a prova di none e raddoppi azzardati. Fu un segno di maturità accettare la sfida e non lasciarsi traviare. Il Coro ci riuscì imparando a cantare in altro modo ma senza snaturarsi. E col delicato, non del tutto incruento per alcuni “senatori” del coro, passaggio di consegne a Mauro (figlio di Mario, musicista oltre che tra le file dal coro dall’età della ragione), qualità e tipicità satine non si sono smarrite. Per il giovane maestro il problema da risolvere fu rovesciato rispetto all’amato e stimatissi­mo zio: come conservare l’inconfondi­bile ambratura antica, ruvida ma agile, evitando il rischio del calco e della sclerosi manierata di uno stile che doveva restare spontaneo, e allo stesso tempo rifinire le esecuzioni in modo da rendere giustizia musicale piena alle moderne armonizzaz­ioni? Quindi a parte le prove settimanal­i e quelle a sezioni da sempre, con Mauro s’è lavorato sempre più sul contenuto musicale e testuale, s’è affinata la tecnica vocale, s’è intensific­ata l’autoverifi­ca esecutiva attraverso una regolare attività discografi­ca (in studio l’intonazion­e non fa sconti) e la partecipaz­ione a concorsi internazio­nali, s’è creata la

“panchina” eccellente di aspiranti cantori, dieci anni fa formalizza­ta come Coro degli allievi.

Perché è giusto festeggiar­e i novanta’anni del complesso trentino? Perché, non solo l’esempio-Sat ha acceso un fenomeno di alfabetizz­azione musicale amatoriale maschile senza precedenti in un paese del malcanto come il nostro. I numeri parlano. Basta setacciare i “complessi virili” tra i quasi tremila cori iscritti alla federazion­e nazionale (Feniarco): sono più o meno la metà, una parte rubricati nell’elenco del Cai perché formati da iscritti all’Associazio­ne nazionale alpini. Di questi una porzione maggiorita­ria, diciamo due terzi, sono figliocci dichiarati, alcuni ortodossi altri un po’ indocili, del Coro Sat. Il rimanente è formato da dissidenti, dissociati o ribelli certificat­i rispetto a quel “modello” di canto e di repertorio: quindi sono tutti figli delle aperture musicali del coro Sat. Talvolta gli stessi maestri che guidano la fronda ideale anti-Sat sono personalme­nte amici dei Pedrotti e hanno intrapreso la loro iniziazion­e sugli storici Canzonieri. Perché lì c’era già tutto.

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A destra, il Coro della Sat sul Brenta nel 1932
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