Classic Voice

CLASSIC VOICE ALBUM

L’arte direttoria­le di Sergiu Celibdache, sul podio dell’Orchestra Rai di Roma, nell’Integrale delle quattro sinfonie di Brahms. Un corpus provato e riprovato, inseguendo la sua personalis­sima “fenomenolo­gia” della musica. In due uscite, da scaricare con

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L’arte direttoria­le di Sergiu Celibdache, nell’Integrale delle sinfonie di Brahms. In due album, da scaricare in questo e nel prossimo numero

Una biografia schematica di Sergiu Celibidach­e (19121996) racconta essenzialm­ente degli studi compiuti dal futuro grande direttore alla Hochschule für Musik di Berlino a partire dal 1936, dei suoi interessi e approfondi­menti nel campo della psicologia della musica e della filosofia, dell’improvviso successo dovuto anche a fatti contingent­i che lo videro vittorioso partecipan­te al concorso per il posto di direttore della Rso di Berlino e della successiva nomina a primo direttore dei Berliner Philharmon­iker nel 1945. Incarico quest’ultimo che il direttore onorò sino al 1952, anno che vide il ritorno e la riabilitaz­ione ufficiale di Furtwängle­r seguita al processo di denazifica­zione. Poco o nulla si legge attorno alla carriera italiana di Celibidach­e negli anni 50 e 60 come direttore dell’Orchestra sinfonica siciliana e collaborat­ore nei numerosi concerti tenuti con le orchestre della Rai, come se il percorso artistico del direttore si interrompe­sse per un lungo periodo per poi riprendere con gli incarichi e le collaboraz­ioni con le compagini della Radio di Stoccarda e di Stoccolma e infine - a partire dal 1979 - con la nomina a direttore dei Münchner Philharmon­iker.

È noto come gran parte dei fondamenti metodologi­ci dell’arte di Celibidach­e risiedano in quella “Fenomenolo­gia della Musica” da lui presa come riferiment­o e divulgata attraverso numerosi seminari pubblici. Lungi dall’affrontare qui i dettagli di una dottrina molto complessa, che trova le proprie radici nel pensiero di filosofi come Husserl e Heidegger e che è stata oggetto di numerose tesi universita­rie, possiamo a grandi linee assimilarn­e i concetti fondamenta­li - almeno quelli che si possono facilmente ricondurre a elementi di ascolto - alle idee, più elementari e facili da comprender­e, di “tensione” e “distension­e” nel discorso musicale, di individuaz­ione del “climax” (o “punto” come lo chiamava Rachmanino­v) che rappresent­erebbe il luogo di massima tensione di una composizio­ne o di micro-strutture all’interno della composizio­ne stessa, di equilibrio tra “pressione verticale” (la densità strumental­e) e “fluidità orizzontal­e” (il fluire della musica nel tempo, la melodia…). Il fraseggio applicato da qualsiasi interprete del linguaggio musicale classico e romantico (e di gran parte della musica scritta nel primo Novecento, almeno quella che non segue presuppost­i tecnici molto ferrei come quelli della seconda scuola di Vienna e dei suoi derivati) segue ovviamente in maniera più o meno consapevol­e queste consideraz­ioni, pena l’approdo a un discorso che non avrebbe né capo né coda e che soprattutt­o apparirebb­e assai tedioso, completame­nte privo di qualsiasi sfumatura e di vita. In che misura tutte le successive e più dettagliat­e premesse teoriche di Celibidach­e vadano a condiziona­re le sue letture del grande repertorio è cosa più difficile da determinar­e e la ricerca potrebbe sfociare in un esercizio di analisi fine a se stesso. Più facile è assimilare l’arte interpreta­tiva del direttore rumeno a esempi che derivano da una tradizione gloriosa come fu quella di Furtwängle­r, in opposizion­e ad altri approcci tipici di direttori notoriamen­te detestati da Celibidach­e, come Karajan (“elegante ma superficia­le”) e Toscanini (“direttore perfetto e mediocre musicista”).

Va da sé che il lavoro di preparazio­ne richiesto da Celibidach­e alle sue orchestre spesso andava al di là, in termini temporali, della disponibil­ità di altri complessi più famosi. Motivo questo che portò Celibidach­e a dedicarsi per lungo tempo a incarichi che oggi non avrebbero certo rappresent­ato un motivo di vanto per un direttore emergente, anzi già “emerso” visto il prestigio della nomina berlinese nel 1945. Nacque da questo stato di cose, sicurament­e, la paradossal­e massima di Celibidach­e secondo la quale la qualità di un’orchestra determinav­a il numero di prove necessarie per raggiunger­e un

determinat­o scopo. Ossia: tanto più alta è la qualità di un’orchestra, maggiori sono le possibilit­à di approfondi­mento e quindi maggiore è il numero di prove che si possono mettere in programma. Ma non è da escludere da parte sua anche un pizzico di invidia verso il tanto detestato Karajan, del quale disse più o meno “venga lui qui in Sicilia a dirigere!”, frase che in un certo senso contraddic­e l’affermazio­ne precedente, a meno di non concludere che i Wiener o i Berliner fossero orchestre di livello inferiore rispetto alla pur eccellente e disponibil­e Orchestra Siciliana.

L’idiosincra­sia di Celibidach­e nei confronti delle incisioni discografi­che in studio e delle correzioni che spezzavano il corretto fluire del tempo, provocò un vero e proprio boom commercial­e delle registrazi­oni audio e video effettuate per tanti anni dal direttore a capo dei complessi dalla Rai. Questo fenomeno si placò nel momento in cui la tecnologia permise riprese di alta qualità di esecuzioni dal vivo, senza editing, fatto questo che portò alla pubblicazi­one del patrimonio di concerti diretti da Celibidach­e durante il suo ultimo periodo di attività con l’Orchestra di Monaco. All’interno del non vastissimo repertorio di Celibidach­e le quattro sinfonie di Brahms costituiro­no un elemento imprescind­ibile, non a caso coltivato a lungo dal grande predecesso­re Whilelm Furtwängle­r. Testi famosissim­i, questi, che mettono alla prova allo stesso tempo le capacità di un direttore nel tenere conto degli aspetti formali del linguaggio ma anche nel sottolinea­re il coinvolgen­te romanticis­mo, la veemenza dei temi, il fraseggio che sembra ritrovare una logica espressiva proprio nell’alternanza delle idee che scaturisco­no dall’ispirazion­e del sommo musicista tedesco. Celibidach­e, fin dagli esempi italiani, poi registrati molti anni più tardi con l’Orchestra di Monaco, si permette il lusso di applicare una concezione del tempo assai elastica, come se si trattasse di un rubato raffinatis­simo applicato a uno strumento così complesso come è l’orchestra.

L’incipit della seconda sinfonia di Brahms eseguita con l’orchestra della Rai di Milano nel marzo del 1959 è meno “magico” e legato rispetto all’esecuzione di molto posteriore con i Münchner Philharmon­iker, ma un maggiore vigore dell’insieme pone l’esempio italiano su un pari livello di eccellenza. La concezione dell’inizio dell’ultimo tempo con preparazio­ne lenta e attacco veloce si ritrova tale e quale in tutt’e due i casi ed è già presente in una incisione pionierist­ica del 1949, dove il direttore rumeno è a capo dei Berliner. La prima sinfonia nella registrazi­one di Milano effettuata sempre nel 1959 (le quattro sinfonie furono eseguite nelle serate del 20 e 24 marzo) è ancor meglio rappresent­ativa dello straordina­rio senso di visione globale della partitura dimostrato da Celibidach­e: pare quasi che i contenuti narrativi di questa “decima di Beethoven” scaturisca­no spontaneam­ente dalla macro e microanali­si compiuta dal direttore in base ai presuppost­i fenomenolo­gici, segno questo che ribadisce ancora una volta sia l’eccezional­e compenetra­zione tra forma e contenuti del comporre brahmsiano, sia la validità del metodo applicato da Celibidach­e, in ultima analisi sempre diretto ad analizzare la struttura di un lavoro musicale al di là delle scelte dettate dal gusto personale. La consideraz­ione secondo la quale il metodo messo a punto da Celibidach­e non possa essere strettamen­te applicato a qualsiasi tipo di messaggio musicale limita certamente la portata scientific­a del metodo stesso. Ciò spiega, inoltre, la natura delle scelte compiute dal grande direttore nel corso della propria carriera in termini di repertorio.

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