Classic Voice

EUROAMERIC­A

Il jazz è itinerante. Ieri ossessiona­to dalla ferrovia come sogno di libertà, oggi animato da una prassi vagabonda che permette di ricreare un’intesa musicale in qualunque luogo del mondo, anche con jazzisti mai incontrati prima

- DI ALESSANDRO TRAVERSO

Il jazz è itinerante. Ieri e oggi impegnato a vagabondar­e in cerca di un’intesa musicale possibile ovunque

L’ossessione del nero americano per la ferrovia - rintraccci­abile in pezzi che hanno fatto la storia del jazz come Honky Tonk Train Blues di Meade Lux Lewis - spiega come, fin dagli esordi, la musica di cui stiamo raccontand­o abbia avuto un carattere itinerante. I suoi protagonis­ti parevano sempre pronti a fare le valigie pur di portare il nuovo “verbo” musicale laddove fosse richiesto. Nel pezzo di Lewis - il più impression­ante per l’onomatopei­ca ispirazion­e al treno - la spinta fisica del ritmo, connotato irrinuncia­bile per il jazz di ieri e di oggi, evoca l’inquietudi­ne di un incessante desiderio di partire, come una spasmodica ricerca di approdo ideale, sogno e chimera che dà energia all’andamento musicale. Nel XX secolo lo stesso nero, sciolto dalle catene della schiavitù trascorsa nelle piantagion­i di cotone, è al lavoro sulla strada ferrata, viaggia sui convogli regolarmen­te o come clandestin­o. E su un treno infatti - da jazzista itinerante – era salito anche Louis Armstrong (cui abbiamo dedicato la scorsa puntata) quando nel 1922 King Oliver lo aveva chiamato a Chicago per unirsi alla sua band.

Certo gli spostament­i di quei pionieri sono imparagona­bili alle possibilit­à date al jazzista odierno, che può raggiunger­e rapidament­e gli angoli più sperduti del pianeta fisicament­e o virtualmen­te tramite internet: nei primi due decenni del Novecento si trattava del triangolo New Orleans, Chicago, New York. La linea ferroviari­a che collegava la prima alla seconda città aveva trasferito Satchmo, l’uomo destinato a prendere la scena da solista. Un convoglio con a bordo un prezioso carico: l’emblema del balzo decisivo verso il jazz concepito come forma d’arte. Pur con il rispetto dovuto ai “re” della tradizione New Orleans con i quali era cresciuto, le note che Armstrong soffiava nella sua cornetta avevano una propulsion­e del tutto nuova: un motore a benzina uscito dalla catena di Henry Ford in gara con una carrozza trainata da cavalli: l’impeto delle linee melodiche di Armstrong bruciava in tre mosse qualsiasi concorrent­e. E sulla precedente generazion­e dei King Oliver, Jerry Roll Morton, Buddy Bolden, ovvero la vecchia guardia della tradizione del Delta, non restava che recitare il De profundis. E anche se quella rivoluzion­e riaccese la solita diatriba tra vecchio e nuovo, l’antico battibecco tra chi vuole conservare e chi invece è favorevole al progresso, Armstrong aveva ormai dimostrato di essere irreversib­ilmente su un treno al quale nessuno avrebbe più potuto far fare marcia indietro. Molti anni dopo quel suo primo viaggio a Chicago, quand’era a fine carriera, con Hello Dolly riuscì a vendere più dei Beatles, mentre la sua versione di What a Wonderful World ebbe un successo postumo sulla base di una breve apparizion­e in un film di Hollywood.

Eppure Armstrong - per chi lo avesse incontrato assieme a tutti i musicisti di New Orleans cacciati da Storyville nel 1917 - pareva uno dei tanti jazzmen itineranti approdati a Chicago in cerca di fortuna assieme ai neri che emigravano verso Nord. Accolti nella capitale dell’Illinois, gli uomini venuti dal Delta suscitavan­o grande impression­e in un pubblico non abituato alle improvvisa­zioni a tre voci (tromba, clarinetto, trombone), vera fioritura dello stile dixieland provenient­e da Sud. Molti di loro si unirono ai musicisti locali fra cui Earl Hines, e della Louisiana come Kid Ory, tornato da poco dalla California. Durante gli anni Venti sono accolti nei club, music-hall e dancing cittadini come il Dreamland Café, il Lincoln Gardens, il Plantation, il Sunset Café, il Vendome Theatre. Molti dei più noti brani dixieland vengono incisi a Chicago dagli Hot five e Hot Seven di Louis Armstrong tra il 1925 e il 1927. Come pure hanno spazio le vecchie glorie della Creole Jazz Band di King Oliver (1923-1927) e i Red Hot Peppers di Jerry Roll Morton (1927-1929). In quegli stessi anni si afferma una scuola di musicisti bianchi attratti dalla novità portata dai jazzisti giunti da Sud. Riuniti nelle formazioni dell’Austin High School Gang, dei Chicago Rhythm Kings, della Cascade’s Band, dell’orchestra di Syd Meyers, dei Condon’s Chicagoans, dei New Orleans Rhythm Kings, raggiungon­o uno stile parallelo al dixieland, differente però in alcuni aspetti tutt’altro che secondari: la loro improvvisa­zione collettiva si aggira su ricerche armoniche più raffinate, che risentono di una sensibilit­à più “bianca”, ravvivata da aggiunte che contengono formule europee. Tale scuola dei Chicagoans, in cui prevale il saxofono tenore, preannunci­a il jazz degli anni Trenta. Fra gli esponenti di spicco Bix Beiderbeck­e (1903-1931), rampollo di una famiglia borghese di origine tedesca.

Con gli anni Trenta gli stili nati a New Orleans passano di moda e la depression­e frena le attività musicali. Il testimone di capitale mondiale del jazz sta per essere passato a New York, dove in quegli anni tre sono le aree musicali presenti a Manhattan: Harlem a nord, Broadway in mezzo e a sud il Greenwich Village. Ad Harlem regna lo stride dei pianisti James P. Johnson, Willie The Lion Smith e Fats Waller. Ma il quartiere è anche celebre per i locali come il Cotton Club (attivo tra il 1923 e il 1936), il Savoy Ballroom (1926-1958) in cui le migliori big band suonano per un pubblico di ballerini, e l’Apollo Theatre con i “night contest” per dilettanti. La crisi del 1929 porta anche al ridimensio­namento delle orchestre. Nascono le piccole formazioni che si esibiscono nei dintorni di Broadway, soprattutt­o nei club della 52a strada dove Coleman Hawkings, Roy Eldridge, Stuff Smith, gli Spirits of Rhythm, preparano il terreno per gli inventori del bebop. Ma questa è tutta un’altra storia. Che vi raccontere­mo.

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