Guido Salvetti
Nel 1715 avvenne nel Sussex un evento rivoluzionario: tre cori delle cattedrali di Hereford, Worcester e Gloucester si diedero appuntamento a Hereford per un festival di due giorni, dedicato interamente ai classici - di allora - del repertorio corale polifonico. Quell’adunata ebbe un tale successo sia presso i fedeli della cattedrale prescelta, sia presso i coristi in trasferta (ospitati presso le famiglie dei coristi locali), che venne replicata l’anno seguente e nell’altro ancora, coinvolgendo in rotazione le pie cittadine di Worcester e di Gloucester. Questa turnazione triennale fu una bella trovata, perché stimolò la competizione a fare meglio degli altri. Si passò così dai due giorni iniziali di Festival alla settimana intera: e quanto più durava il festival, tanto prima si svolgeva, in modo da poter coincidere con il tempo del riposo estivo: da settembre ad agosto, da agosto all’ultima settimana di luglio, che è ancor oggi il momento prescelto.
Nacque allora il Festival musicale dell’era moderna. Gli “ingredienti” sono la festa (feast), l’accorrere del pubblico anche da luoghi più o meno lontani, e soprattutto l’eccellenza dei tanti musicisti che non hanno più nulla a che fare con quelli da strada che affollavano le fiere paesane e i giorni di mercato inondati di birra e salsicce. A garanzia della qualità di quei cori e di quelle musiche si ergeva allora la chiesa, anzi la Chiesa, a cui veniva uniformato il repertorio, con brani sacri di compositori del livello di Henry Purcell. Solo dopo qualche decennio si imposero, laicamente, Handel, Mozart, Beethoven, Mendelssohn, nonché naturalmente, giù giù, le glorie autoctone di Elgar o di Vaugham William.
“È stata ‘ postata’ la prova che gli italiani non sanno leggere la musica”
Insomma non potrebbe esserci storia più bella. Una storia “alta”, straordinaramente partecipata sia dai musicisti sia dal pubblico. Una storia attenta alle innovazioni e all’eccellenza, che fiorì in Germania nell’Ottocento con forme analoghe (il Festival del Basso Reno, ad esempio, vedeva la turnazione delle città di Düsseldorf, Colonia e Aquisgrana) e, nel Novecento, anche in Italia (il Maggio fiorentino e il Festival veneziano). E poi, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, nei cinque continenti.
Oggi assistiamo infatti all’autentica esplosione di questo tipo di organizzazione musicale. Naturalmente, come è inevitabile quando aumenta la quantità, si può registrare qualche deciso calo di qualità. Ma nessuno si lascia ingannare, a fronte di Salisburgo, o Glasgow, o Bregenz, o Bayreuth, o Venezia, dall’uso spericolato che potrebbero fare di questo termine Roccacannuccia o Gessate sul Naviglio. O Sanremo, naturalmente. Ma Milano è da prendere sul serio, comunque. Ed è per questo che, carico di ammirazione per i veri Festival, tanto più mi ha incuriosito un avvenimento che potrebbe segnare la storia del pubblico musicale in Italia. Sotto l’ombrello del termine Festival è stato infatti tentato un esperimento non poco spericolato: in piazza Duomo è stato distribuito a migliaia di persone uno spartito musicale dove tutti avrebbero potuto leggere musiche polifoniche, persino a 4 voci. L’evento è stato “postato” (come si dice) e quindi immortalato. Purtroppo è rimasta la prova che la stragrande maggioranza degli italiani non sa leggere la musica, nonostante i tre anni di cosiddetta Educazione musicale nella scuola media. Un popolo che non riesce neppure a intonare decentemente “tanti auguri a te”… Figurarsi un brano polifonico! Eppure, nonostante l’esito semplificato, più simile - per risultato - a un karaoke inesorabilmente monodico e con attacchi sempre più cauti di quanto prescritto, l’avvenimento è carico di futuro: ma davvero, attraverso simili idee utopiche, potremo avere un giorno non troppo lontano un popolo che assomigli almeno un poco ai timorati cittadini di Lubecca o di Rostock (o Hereford, Gloucester e Worcester) che ogni domenica intonano perfettamente, a più voci, il canto liturgico del giorno annotato sul foglietto che tutti leggono senza alcuna difficoltà?
Par di sognare! e viene da riflettere sulla funzione benefica dei bluff.