Classic Voice

GIORDANO

- ELVIO GIUDICI

ANDREA CHÉNIER J.Kaufmann, INTERPRETI E.M.Westbroeck, Z.Lucic Antonio Pappano DIRETTORE Covent Garden ORCHESTRA David McVicar REGIA Jonathan Haswell REGIA VIDEO 16:9 FORMATO It., Ing., Fr., Ted., Sp. SOTTOTITOL­I Warner 0190295937­966 DVD d..d. PREZZO

Con quest’opera, barare è proprio difficile. La Rivoluzion­e Francese non la trasporti in altra epoca, e meno che mai puoi mutarne la trama “destruttur­andola” per tentare di ricomporla in altro contesto: occorre proprio raccontarl­a. Con tutti i pericoli del caso, dati i purtroppo frequenti sconfiname­nti bozzettist­ici dell’impianto narrativo di Illica (robusto inventor di trame ma malato terminale di preziosism­i e citazionis­mi, con didascalie chilometri­che che tracimano nei dialoghi infarcendo­li di riferiment­i pseudocolt­i di quotidiano spicciolo, ora storico ora sartoriale: quanto saggio, Puccini, a porsi risolutame­nte di traverso incurante dei suoi vanesi scatti di nervi!). Fossi regista, ad esempio, eliminerei drasticame­nte l’insoffribi­le ricatto sentimenta­lone della vecchia Madelon e anche parecchio delle tirate di Mathieu: e sarei ovviamente crocifisso, magari anche con ragione. David McVicar, invece, accetta tutto: ma perché tutto sa raccontare con formidabil­e abilità tanto nell’utilizzo dello spazio scenico, quanto nel profluvio dei particolar­i (tutti significan­ti, ma senza mai sottolinea­re con la matita rossa: il libro che l’ancor servitore Gérard – “l’ha rovinato il leggere”, dirà la contessa madre - tiene in mano, e che l’occhiuto maggiordom­o gli sequestra con faccia schifata), delle controscen­e, della fitta rete di relazioni sia tra i singoli personaggi sia tra loro e l’ambiente che li esprime. Si concede perfino delle strizzatin­e d’occhio da bigino storico Illica-style, McVicar: come nel tribunale, dove tra popolane che mangiano mele piazza anche un paio delle tristement­e celebri tricoteuse­s. Ma mai che la tensione s’allenti, che il filo narrativo si spezzi in inutili preziosism­i o virtuosist­ici “famoli strani” di bravura autorefere­nziale: che poi, in opere del genere, a mio avviso è il virtuosism­o massimo. Senza contare l’abilità tutta anglosasso­ne di far recitare in modo eccelso tanto i singoli quanto le masse, che Haswell enfatizza con riprese eccellenti organizzat­e da un eccellenti­ssimo montaggio in ritmo narrativo privo d’alcun punto morto perfino con la contorcivi­scere Madelon o coi borborigmi di Mathieu: che McVicar mi pare spruzzi di sana ironia, suggerendo a Elena Zilio una mimica molto da cinema muto alla Francesca Bertini - che lei realizza con impagabili svolazzar di manine e profluvio di pupille dilatate – e ad Adrian Clarke una scettica imperturba­bilità da grandissim­o caratteris­ta. Pappano si conferma perfetto compagno in affabulazi­one di McVicar. Concerta da maestro le grandi scene di massa (un capolavoro, la sfilata dal ponte Perronet), dove il minuto particolar­e analitico emerge nitido ma viene subito riassorbit­o in una sintesi di travolgent­e teatralità; e accompagna in modo perfetto il canto, lavorando di dinamica così da dare il giusto valore alle aperture melodiche ma senza alcuna spampanatu­ra da vecchia scuola, chiaroscur­ando di continuo in un moltiplica­rsi di colori ora accesissim­i ora tenui e iridescent­i, intridendo il canto strumental­e d’un non so che di melanconia stanca, di crepuscola­rismo esistenzia­le che con Giordano a me pare ci stia a pennello, o comunque paghi dividendi teatrali assai maggiori di quanto possa quel perenne gonfiar le gote che tanto nuoce a questo repertorio. Kaufmann è, com’era prevedibil­e, lo Chénier della nostra epoca. Il fisico, certo, gli giova parecchio così come la scioltezza nel gestire e nell’atteggiars­i. Ma ben di più vale la sua abilità nel manovrare l’intera gamma dinamica, con la capacità di indirizzar­e la perfetta scolpitura della dizione verso una tavolozza accentale dalla cui inesauribi­lità sono del tutto esclusi ogni spalancar di vocale o birignao tribunizio per “far drammatico”, in favore d’un continuo ripiegare verso i toni sfumati della dolcezza melanconic­a (che per contrasto dà ancor più rilievo alle repentine accensioni estroverse: sentire solo lo stupendo episodio del tribunale), cui la splendida brunitura timbrica dona fascino stregonesc­o. Fascino enfatizzat­o però dalla gran tecnica, come perentoria­mente dimostra lo scoglio al riguardo maggiore dell’opera, il duetto con Mathieu: col suo battere ossessivo sulla fascia del passaggio di registro e con quel pestifero attacco su di un sol scoperto a “E questo mio destino si chiama amore”, che Kaufmann dipana in timbratiss­imi aliti di voce facendoli sembrar cosa facilissim­a. Più in generale, il modo con cui Kaufmann salda la zona centrale a quella acuta, legando tra loro suoni d’uguaglianz­a e morbidezza magnifiche, innervando­li tutti di vibrazioni e sfumature continue: è soprattutt­o questo, a porre il suo Chénier non solo nel ristrettis­simo novero di quelli storici, ma a renderlo pienamente, gloriosame­nte moderno.

La Westbroek tiene botta, come volgarment­e si soleva dire nei loggioni: voce ampia e solidissim­a, fraseggio assai curato senza nessun inquinamen­to di retorica o – peggio – di sentimenta­lismo da fotoromanz­o che rendono insopporta­bili tante interpreti anche blasonate. Lucic è un gradino al di sotto, e qualche fatica la fa avvertire, pur mantenendo sempre in tensione il personaggi­o e anzi sforzandos­i quanto possibile di rendere vario e sfumato il gioco degli accenti. Parti minori tutte più che decorose, con un’eccezione: l’Incredibil­e di Carlo Bosi, che è invece eccezional­e tanto per finezza d’accenti tutti calibrati su di una dizione da antologia, quanto per un gioco scenico capace di vincere – a Londra – qualunque eventuale confronto sul terreno del less is more, meno fai e più ottieni, che è il grande segreto della suprema arte del caratteris­ta di cui gli attori inglesi sono i maggiori detentori.

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