WAGNER NORIMBERGA MAESTRI CANTORI DI OUVERTURE) STRAUSS
QUATTRO ULTIMI LIEDER SINFONIA DOMESTICA SOLISTA Diana Damrau DIRETTORE Kirill Petrenko ORCHESTRA dell’Opera di Stato bavarese
TEATRO alla Scala “Il nuovo direttore dei Berliner riesce nell’impresa di sottrarre Richard Strauss alle crepuscolari litanie o alle leziose bonomie”
Basta rispettare tutte le indicazioni del libretto per restare fedele all’autore? No, e se n’è avuta palese dimostrazione nel Flauto magico messo in scena alla Scala con le sole forze della sua Accademia. Peter Stein ha seguito tutto quello che Schikaneder aveva suggerito: movimenti, gesti, situazioni, come nelle recite viennesi originali. Dunque c’erano i costumi d’ordinanza. E le scenografie “povere” (di Ferdinand Wögerbauer, ispirate ai disegni di Max Slevogt): per lo più scolastiche, altre volte poetiche e perfino ironiche (l’armamentario finto egizio…), chissà se consapevolmente. Così il palazzo della Regina della Notte spunta e avanza dalla montagna di roccia che si apre come in un’antica macchineria teatrale, Pa- pageno si applica con filologia in tutte le previste buffonerie e Monostatos non cammina ma saltella: non ricordate che è stato punito con “settantasette frustate sotto i piedi”? Lo scrupolo didascalico, l’accortezza gestuale, prevale sulla fantasia. E l’effetto è quello di un Flauto in naftalina. Cioè l’infedeltà a Mozart più assoluta. Lo stesso si può dire per la direzione di Adam Fischer: attenta nello scavare, tornire, calibrare i profili orchestrali. Lenta perché minuziosa. Provata e riprovata. Ma senza vita. Eppure in buca ci sono giovani di vent’anni, altre volte sentiti più energici, liberi ed esuberanti. Ora, invece, sono timidi, accorti, pendono dal gesto del direttore, imprecisi negli assieme e nell’intonazione. L’accademia frena l’Accademia. È piaciuto invece il senso generale dell’operazione. Per la prima volta davvero un progetto giovanile, e non una semplice etichetta. Così voci, strumenti, costumi, scene, perfino le fotografie a uso stampa, erano partecipate. Con un cast formato totalmente da allievi vecchi e nuovi, o iscritti per l’occasione. Senza ingombranti tutoraggi: tutto era sulle loro spalle. E il lavoro con Stein per un anno intero su arie, duetti, concertati e dialoghi parlati (riaperti nella loro integrità), studiando il testo, la musica, e il loro rapporto nella recitazione, al di là degli esiti, ha insegnato a tutti che l’opera non è solo una palestra per muscoli vocali. Bravi questi ragazzi, peraltro anche vocalmente: Martin Piskorsi (Tamino), Fatma Said (Pamina), Till von Orlowsky ( Papageno), Yasmin Özkan (Regina della Notte, che acuti e che spolvero la sua seconda aria!), Martin Summer (Sarastro a corto di gravi). Meglio dei fastidiosi genietti fatti arrivare da Wilten. I cognomi italiani mancano, ma la Scala resta approdo formativo internazionale.
Tutto il contrario di quanto è successo alla seconda d’autunno (segue, terzo debutto settembrino, L’incoronazione
di Poppea Wilson-Alessandrini già vista e recensita su queste pagine: tenere il teatro sempre aperto? Si può). La nuova produzione del Giro di vite è una meraviglia: per inventiva, coraggio, compenetrazione, sintonia fra interpreti e autori. Lo spettacolo di Kasper Holten, con i suoi ombrosi e magici riferimenti alla fumettistica noir d’annata, avvince. E pure,
disponendo i personaggi in ambienti separati come in una claustrofobica case di bambole, inquieta. Le voci, di fuori e di dentro, non comunicano: coesistono senza mai guardarsi in faccia. Abitano realtà parallele. E sola più di tutti è proprio lei, la Governante, che svela con gesti scabrosi imprevisti il suo enorme carico di repressione. La “partitura visiva” la spinge sulla soglia della colpevolezza: quelle presenze misteriose sono solo sue proiezioni? La sfericità, la sospensione, l’ambiguità delle situazioni si sentono pure in orchestra: Christoph Eschenbach, prima di drammatizzare il racconto nel secondo atto, lo imposta sulla miracolosa, incantata, prova solistica dei tredici strumentisti scaligeri. Un cristallo sonoro incisivo ma non contundente. Tintinnante e fragile. Sfingeo nella sua ricercata neutralità espressiva. Su cui si dispone la prova eccellente di Miah Persson, Governante nevrotica e visionaria, di Ian Bostridge, Quint innocente e diafano, di Jennifer Johnston, Mrs. Grose robusta, ma anche quella esile, sebbene timbricamente autentica, delle voci bianche di Sebastian Exall e Louise Moseley. Nel mese in cui i complessi scaligeri erano in tournée fra la Russia e il Giappone, va registrato pure il passaggio al Piermarini (unica tappa italiana) dell’orchestra dell’Opera di Monaco, diretta da Kirill Petrenko. Un talento strepitoso: il pubblico scaligero non l’ha lasciato andare senza prima tributargli un applauso individuale, tutto per lui, a palcoscenico ormai sgombro. E infatti il nuovo direttore in pectore dei Berliner è sembrato di
una bravura senza confronti: nell’ouverture dei Maestri Cantori, dove è riuscito nel miracolo di coniugare suono, potenza, brillantezza e velocità, in un Wagner dunque finalmente gioioso e vivace, ma non per questo “swagnerizzato”. E - ancora più meritevolmente - nell’impresa di sottrarre Richard Strauss alle crepuscolari litanie o alle leziose bonomie (come nel caso della Sinfonia domestica, qui invece arguta e a tratti quasi sfrenata). I Quattro ultimi Lieder Petrenko li intende come ultimo inno alla vita, prima di ripiegare nella malinconia toccante di Im Abendrot. Un percorso condiviso con totale immedesimazione da Diana Damrau, che ha dato corpo alla straordinaria tarda creatività d’autore con una lettura solare e voluttuosa, di pieno rigoglio vocale, somministrando ritenzioni e mezze voci, ma senza cospargerle troppo.