CAVALLI ELIOGABALO
INTERPRETI F. Fagioli, P. Groves, M.
Flores
DIRETTORE Leonardo García Alarcón CAPPELLA Mediterranea
REGIA Thomas Jolly
TEATRO Palais Garnier “Attesissimo, Franco Fagioli ci consegna un Eliogabalo credibile, tanto drammaturgicamente quanto musicalmente. Eppure, non riesce ad imporsi come il protagonista indiscusso”
Chi l’avrebbe mai detto? Come immaginare solo una decina di anni fa che il primo teatro francese, l’Opéra national de Paris, avrebbe affidato l’apertura della stagione di Palais Garnier - sala certo meno sterminata di Bastille, ma comunque imponente - ad un’opera di Francesco Cavalli, per giunta scelta tra i titoli meno noti del compositore veneziano? Merito probabilmente della nuova edizione completa guidata da Ellen Rosand (e di Mauro Calcagno per il testo in questione) e soprattutto di un appetito per il barocco insaziabile in Francia. Di fatto, non solo è Eliogabalo ad essere in cima del nuovo cartellone, ma si è subito imposto come l’evento da non perdere per ragioni che venivano tanto dalla fossa quanto dal palcoscenico. Perché per questa nuova produzione Stéphane Lissner, con il suo fiuto mediatico indiscusso, è riuscito a stanare due enfants prodiges del mondo dello spettacolo, riveriti dal pubblico: da una parte, Leonardo García Alarcón con la sua Cappella Mediterranea, senza dubbio uno degli ensemble barocchi emergenti degli ultimissimi anni; e dall’altra, Thomas Jolly, propulsato dalle regie shakespeariane, specie dalla rappresentazione della trilogia su Enrico IV. Ovviamente, ci si aspettava molto proprio dal regista. Noto per gli eccessi, Jolly avrebbe disposto di tutto per sguazzare nell’universo dell’opera veneziana, dove convivono generi opposti che sballottano la drammaturgia dalle lacrime al riso. In questa materia che trasuda sangue, sesso e lacrime di ogni tipo, Jolly si è, invece, mosso con una pudicizia quasi classicheggiante. Una scena fissa costruita su una serie di gradini, probabilmente simboleggianti l’ascensione al potere, e la scelta ossessiva del colore nero, col rischio che diventi un interminabile grigiastro. Solo ballerini dei due sessi, quasi desnudi, spezzano la monotonia. Che diventa noia, verso la fine delle quasi quattro ore di spettacolo. Che il regista alle sue prime armi all’opera sia rimasto intimidito da strutture che non vertono sulla parola, ma sulla musica? Comunque, resta il rimpianto di un’occasione mancata. Per fortuna, c’è tutto il resto. Innanzi tutto, una lussureggiante orchestra. Certo, a dispetto degli scrupoli vantati dal movimento “storicamente informato” che arruola sempre più (a ragione) adepti tra musi- cologi e strumentisti, va detto che la Cappella Mediterranea fa quello che vuole: siamo ben lontani dall’organico dei teatri veneziani dell’epoca di Monteverdi e Cavalli, ormai ben noti. Ma come poter rimproverare a Alarcón di essersi adeguato ad una sala Napoleone III, ben lontana dall’assetto seicentesco? Moltiplicata quasi per tre e con l’aggiunta spavalda di fiati e percussioni, almeno Cappella Mediterranea ha retto l’urto. Ancora meglio, ha avvolto il pubblico con una sensualità musicale fondata su una varietà raffinata di colori. È sicuramente il direttore argentino il vero pilota a bordo. Lo affianca un cast di rango. Attesissimo, Franco Fagioli ci consegna un Eliogabalo credibile, tanto drammaturgicamente quanto musicalmente. Eppure, non riesce ad imporsi come il protagonista indiscusso. Lo assediano due bravi interpreti maschili - il tenore Paul Groves (Alessandro) e Valer Sabadus (Giuliano) -, ma soprattutto l’eccellente cast femminile. Benché non abbia un ruolo di grandissimo rilievo, trionfa Mariana Flores (Atilia) dalla tecnica impeccabile, dal timbro fresco e dalla recitazione sempre appropriata. Un teatro stracolmo, aperto alla novità, decreta comunque il successo. Almeno quello della musica.