FESTIVAL MITO
SETTEMBRE MUSICA INTERPRETI e luoghi vari
“Il nuovo MiTo commissiona nuova musica uscendo dal solco della contemporanea più cerebrale e ribaltando l’adagio ‘prima il dovere e poi il piacere’”
Nel 1978 nasceva a Torino dalla fervida mente dell’assessore comunista Giorgio Balmas il festival Settembre Musica. C’era l’ostensione della Sindone in Duomo e l’idea fu di contribuire “laicamente” all’evento, disseminando la città di concerti gratuiti nelle chiese. L’esperimento, riuscitissimo, venne subito istituzionalizzato. Mutò comprensibilmente nel corso degli anni e si irrigidì forse un po’ nella formula dei principali festival europei. Sulla spinta anche di problemi finanziari, Settembre Musica nel 2007 si trasformò quindi in MiTo, dividendo onori ed oneri con Milano. Ora, giunto alla sua decima edizione, la manifestazione ha cambiato di nuovo pelle, passando alla direzione artistica di Nicola Campogrande. Il nuovo corso si fonda su una dichiarazione ontologica oltremodo confortante: la musica classica esiste, non ha bisogno di crossover e di forzose contaminazioni, è un universo vitalissimo, le stampelle non servono, conta il modo in cui la si porge, la scommessa, il nodo da sciogliere, è allargare e rinnovare il suo pubblico. La ricetta di Campogrande si compone di oculati ingredienti. Innanzitutto propone un tema - “Padri e figli” - intorno a cui coagulare la programmazione; diversifica molto gli spazi - chiese, sedi istituzionali, ma anche piazze, piccoli teatri, luoghi simbolici come l’auditorium del grattacielo Intesa San Paolo, icona verticale del nuovo volto urbanistico che si vorrebbe (o si sarebbe voluto) dare a Torino -; valorizza le istituzioni musicali cittadine, anche quelle amatoriali come i cori; contiene i prezzi dei biglietti con particolare favore per gli under 14; commissiona nuova musica uscendo dal solco della contemporanea più cerebrale e ribaltando l’adagio “prima il dovere e poi il piacere”. Ma una particolare dovizia pedagogica mette nello scortare l’ascoltatore, ben oltre il tradizionale programma di sala, sia munendo ciascun concerto di una breve presentazione verbale, sia talora adottando - è stato il caso della serata “Puro Schumann” al teatro Regio - la proiezione sul boccascena, nello spazio ormai usuale dei sopratitoli per l’opera, di una descrizione analitica puntuale, appena mitigata da qualche notazione impressionistica, di ciò che si stava ascoltando. Venendo proprio al concerto della Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly, tenuto in un Regio affollatissimo, l’orchestra scalpitante per l’imminente tour in Germania, tirata a lucido e in formato XL con ben 9 contrabbassi per la Seconda di Schumann, s’è rivelata nelle mani del direttore milanese strumento docilissimo capace di colori densi e pastosi nell’Ouverture zu Manfred quanto di rara profondità lirica nell’Adagio della Sinfonia. Nessuna riserva sulla prestanza pianistica di Beatri- ce Rana, applaudita interprete del Concerto di Schumann, che però in altre prove aveva convinto maggiormente sul piano musicale. Complice forse la tensione per la diretta radiofonica, l’Allegro affettuoso mancava un po’ di autentico affetto e l’Andantino grazioso, un po’ di grazia. S’aggiunga che il lavoro di intarsio fra solista e orchestra avrebbe potuto essere più rifinito, soprattutto a fronte delle continue sollecitazioni di Chailly, e il bis - il Lied schumanniano Widmung trascritto da Liszt -, messa a parte la formidabile bravura, siglava un problema già riscontrato qui e là nel Concerto, ovvero una non sempre soddisfacente intensità di canto. Una menzione meritano anche altri due concerti ascoltati negli ultimi giorni del festival: quello dell’Altus Trio, formazione molto equilibrata, parrebbe più versata per il classicismo che per il romanticismo, e la prima assoluta del lavoro per pianoforte e orchestra da camera di Enrico Correggia Già vaneggiamo abissi, lavoro di forte impatto forse meritevole di sede esecutiva meno claustrofobica del Piccolo Regio.