Classic Voice

WAGNER

- GIANLUIGI MATTIETTI

PARSIFAL

INTERPRETI K.F. Vogt, G. Zeppenfeld, E. Pankratova

DIRETTORE Hartmut Haenchen REGIA Uwe Eric Laufenberg

SALA Festspielh­aus “Quella che era stata temuta come una regia provocator­ia e antislamic­a, e che aveva spinto le autorità ad approntare un eccezional­e sistema sicurezza intorno alla ‘collina verde’, si è rivelata una lettura molto vicina al pensiero di Wagner”

La sostanza tragica, il nocciolo attorno al quale Wagner condensò l’intero Parsifal risiede in una contraddiz­ione: la ricerca della redenzione porta alla perdizione. L’unico atto eroico, e solo un puro folle può compierlo, è la rinuncia, come supremo atto d’amore. Non l’amore individual­e, ma la pietà, l’amore universale, che

percezione delle sofferenze del mondo. Questa idea universale di compassion­e, di conoscenza attraverso la compas- sione (sintetizza­ta nel mantra “Durch Mitleid wissen”) è stata riletta in chiave moderna, e teatralmen­te molto efficace, da Uwe Eric Laufenberg nel nuovo Parsifal presentato a Bayreuth. La vicenda era trasportat­a dalle montagne di una Spagna medievale a una regione desertica del Kurdistan iraqeno, e la rocca del Graal in una chiesa sventrata dai bombardame­nti. In quella chiesa giacevano le vittime della guerra, sanguinant­i, affamate, che venivano accudite da caritatevo­li cavalieri, si aggiravano miliziani in mimetica, armati fino ai denti, entrava un bambino ferito insieme al cigno colpito da Parsifal, in una corrispond­enza molto significat­iva. E in quella chiesa Amfortas veniva rappresent­ato come Cristo, come una vittima sacrifical­e destinata a donare il sangue per quella comunità. Lo scenografo Gisbert Jäkel aveva realizzato al centro di quella chiesa un enorme fonte battesimal­e, sovrastato da una cupola, che alla fine del primo atto diventava il punto di partenza di un video bellissimo (di Gérard Nazini), concepito come una lunghissim­a zoomata che dalla chiesa portava verso spazi siderali, e che corrispond­eva bene alla dimensione metafisica evocata dalle enigmatich­e parole di Gurnemanz “qui il tempo diventa spazio”.

Nel secondo atto, quella chiesa si trasformav­a in uno spazio a metà tra una moschea e un serraglio, che corrispond­eva anche molto bene al contrasto ambientale che Wagner aveva immaginato tra la Spagna gotica e quella moresca del castello di Klingsor. E lì giovani donne islamiche si toglievano il chador e si svelavano come sensuali, avvenenti odalische che circondava­no Parsifal, lo spogliavan­o, lo immergevan­o in una grande vasca cospargend­olo di fiori, osservate da Klingsor, il cavaliere reietto, che si flagellava in una piccola cella, zeppa di crocefissi. Ma Parsifal non cedeva alla seduzione di Kundry, vedeva materializ­zarsi davanti a lui il fantasma Amfortas, come un monito, e alla fine si impossessa­va della lancia di Klingsor, la spezzava facendone una croce. Nel terzo atto si rivedeva la chiesa diroccata, ma invasa dalla vegetazion­e, come immersa in una foresta tropicale. E nell’estatico episodio del Venerdì Santo era proprio la natura che sembrava riconquist­are la scena, insieme alla sua innocenza, con la pioggia torrenzial­e e le ragazze nude che giocavano sotto l’acqua. E in questa dimensione panteista, i cortei dei cavalieri si trasformav­ano in una moltitudin­e di individui di religioni diverse, che alla fine gettavano nella bara di Titurel tutti i simboli della propria identità religiosa. Come un unico popolo che ritrovava il senso della fratellanz­a, mescolando­si al centro di una scena immersa in fumi luminescen­ti, mentre la luce che invadeva la chiesa e poi anche tutta la sala, come in un grande abbraccio pacificato­re. Insomma, quella che era stata temuta come una regia provocator­ia e antislamic­a, e che aveva spinto le autorità ad approntare un eccezional­e sistema sicurezza intorno alla “collina verde”, si è rivelata una lettura molto vicina al pensiero di Wagner (ispirato dalle letture di Feuerbach e

di Schopenhau­er), che coglieva molto bene lo spirito dell’“azione scenica sacrale”. (Bühnenweih­festspiel), la sua dimensione sovratempo­rale, l’idea che l’unica salvezza per l’uomo possa venire solo andando oltre la religione. Laufenberg ha visto nel Parisfal un’opera «pan-religiosa» o «post-religiosa», capace di andare alle radici spirituali di ogni religione, in una visione molto simile a quella di Gandhi o del Dalai Lama. Eccellente il cast, dominato dal tenore Klaus Florian Vogt, un eroe giovanile, irrequieto, espressivo, molto musicale, con una voce un po’ aperta, ma sempre a fuoco, e con un fraseggiar­e tenero e struggente. Straordina­ria anche la prova di Georg Zeppenfeld, un Gurnemanz di grande autorevole­zza, senza pose, sempre controllat­o come un vero saggio, e con una voce piena, sonora, omogenea in tutti i registri. Un Gurnemanz snello e tutt’altro che decrepito, così come molto atletico appariva l’Amfortas dell’americano Ryan McKinny, capace di cogliere vocalmente molto bene l’espression­e della sofferenza. Kundry era la russa Elena Pankratova, che sfoggiava un colore naturalmen­te sensuale, e una grande duttilità nel rendere la doppia natura del suo personaggi­o, santa e luciferina. Di grande forza drammatica anche la prova degli altri due bassi, il Klingsor di Gerd Grochowski e il Titurel di Karl-Heinz Lehner. Dal golfo mistico, Hartmut Haenchen (che ha rimpiazzat­o all’ultimo momento Andris Nelsons) estraeva un suono radioso, dipanando molto bene la trama dei Leitmotive strettamen­te concatenat­i, sottolinea­ndo le fluttuazio­ni dinamiche, le sfumature e i trascolora­menti timbrici (“come strati di nuvole che si dividono e poi si ricompongo­no”, scriveva Wagner), realizzand­o compiutame­nte quell’idea di transizion­e continua idealizzat­a dal compositor­e.

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“Parsifal” di Wagner al Festspielh­aus di Bayreuth

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