MUSIVISIONI
Con il canone bachiano capovolto in Haussmann; o descritta in forma malinconica nei Fünf Lieder di Brahms La morte “disfa” i temi musicali in Ciaikovskij, Ravel, Liszt. E appare allo specchio mentre suona nell’autoritratto di Böcklin
Traumatizzante, non meno degli scheletri di James Ensor, è un dipinto di Arnold Böcklin (Basilea, martedì 16 ottobre 1827 - San Domenico di Fiesole, mercoledì 16 gennaio 1901). Si trova nella Alte Nationalgalerie di Berlino, ed è un olio su tela, di centimetri 75 × 61. Databile tra il 1871 e il 1874, con maggiore probabilità al 1872, s’intitola Selbstporträt mit fiedelndem Tod (“Autoritratto con la Morte che suona il violino” [ma anche “la viola”]). Il dipinto ritrae il pittore all’incirca quarantacinquenne, con il pennello in mano: è frontale, ma i suoi occhi non guardano esattamente noi. Stanno fissando qualcosa alle nostre spalle. Considerando la condizione essenziale per un autoritratto, sappiamo che lo sguardo di Böcklin s’indirizza a un oggetto magico, gnostico, simbolico e perturbante: a uno specchio. Quasi fatalmente, là dove la musica si annida nella pittura, un’irresistibile tentazione evoca la cifra diottrica: un altro illustre esempio è il dipinto (1746) di Elias Gottlob Haussmann raffigurante il sessantunenne Johann Sebastian Bach che tiene in mano il Canon Triplex a 6 voci (Bwv 1076): uno strano Canone che esige uno specchio per completarsi. Bach era già malato nel 1746, e ancora nel 1748, quando Haussmann fece una copia quasi identica del ritratto, in cui però il foglio tenuto in mano da Bach mostra la stessa musica, ma capovolta. Ancora la suggestione diottrica: infatti, lo specchio risolve l’enigma delle 3 voci (in luogo delle 6 annunciate dal titolo del Canone) secondo un celebre saggio di Friedrich Smend ( J. S. Bach bei seinem Namen gerufen: eine Notenschrift und ihre Deutung, Bärenreiter, Kassel 1950) sviluppato da Mario Ruffini ( J. S. Bach: lo specchio di Dio e il segreto dell’immagine riflessa, Polistampa, Firenze 2012).
Se nel ritratto di Haussmann un Bach con un’ombra d’ironico sorriso lascia ai posteri la soluzione degli enigmi, sentendosi “dinanzi al trono di Dio” (così nell’ultimo Corale, Vor deinen Thron tret’ ich hiermit Bwv 668), Böcklin, con lo sguardo tranquillo sotto la fronte lievemente corrugata, intento al proprio lavoro d’artista, è un uomo poco più che quarantenne, e sta forse considerando il “sé stesso” giunto al crinale d’età in cui si possono considerare le gioie della giovinezza soltanto come “il recente passato”, e in cui accade di sentirsi un “vecchio giovanotto” o una “vecchia ragazza”. È l’età in
cui si comincia a prefigurare in sé la maturità e il presagio di senilità. Così un poeta malinconico per eccellenza, Friedrich Rückert, nella poesia Mit vierzig Jahren ist der Berg erstiegen, divenuto nel 1884 il n. 1 dei Fünf Lieder op. 94 di Johannes Brahms, altro post-quarantenne dalla düreriana “melencholìa”. Si affaccia alla memoria anche Límites di Jorge Luis Borges: “Este verano cumpliré cincuenta años; / la muerte me desgasta, incesante”, e il sinistro “Yo, que sentí el horror de los espejos”. La serie sarebbe inesausta. Dunque, a quarant’anni sento la morte che mi si arrampica addosso (era un’ossessione di Thomas Bernhard), e il passato irradiante rimpianti si specchia nel dubitoso futuro. Ma accade che io mi guardi allo specchio, talvolta non per penosa velleità di rassicurazione (“suvvìa, non sono poi tanto male…”), e neppure per stolido narcisismo (“bene, faccio sempre la mia figura!”), ma per un serio e nobile intento. Sono un artista, un pittore, ho la coscienza della profonda onestà intellettuale che ispira il mio lavoro nell’arte. Decido di realizzare il mio autoritratto… ed ecco, mentre mi sto guardando allo specchio e lascio che sia esso a guidare il mio pennello, mi accorgo che da tempo, alle mie spalle, c’è lei, la Morte. Non soltanto alle mie spalle: si appoggia a me, sta per rodermi il cranio come il conte Ugolino all’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, e la sua mano di scheletro mi striscia sulla spalla. Sta per entrare in me. Essa ha una faccia, ed è superfluo descriverla. Horribile dictu, essa è una “persona”, e per questo la nomino con la “M” maiuscola. Mi circonda il volto, dall’angolo in alto a sinistra fino alla zona in basso a destra del dipinto, una massa impenetrabile, un nero di tenebra nel quale indovino orrende metamorfosi, fusioni d’innominabili membra. Io, che volevo soltanto ritrarre me stesso, non mi ero accorto che, con i miei stessi gesti, stavo ritraendo la Morte. Ora, sto diventando io stesso la Morte.
Dovrei dire: sto diventando Lui, in ossequio al lessico tedesco nel cui codice semantico la Morte è maschile, “der Tod”. C’è di peggio: la Morte sta suonando una musica che significa “morte”. Il titolo voluto da Böcklin indica che la Morte sta suonando la “Fiedel”. Il verbo è “fiedeln”, il participio presente (azione in fieri) è “fiedelnd”. L’origine lessicale è nel tardo latino “fidula”, da cui numerosi e diversi esiti, fra cui il francese antico “vièle”, l’italiano “viella”, ma anche “viola”, “violino”, o il norvegese “fela”, parola frequente nei Lieder di Nils “Geirr” Tweitt su testi poetici di Olav Håkonson Hauge. Secondo la tradizione austro- tedesca, la Fiedel è lo strumento suonato da “Freund Hein” (l’amico Hein, il compare Hein, “der Gevatter Tod”): un eufemismo di cui si ricordò Gustav Mahler, quando nel II tempo della Quarta Sinfonia decise da fare eseguire dal primo violino alcuni passaggi su uno strumento accordato un tono intero più in alto, per suggerire all’ascoltatore il suono aspro, appunto, della “Fiedel”. Queste considerazioni sulla “Fiedel” erano necessarie per restituire la giusta intensità al tono macabro del dipinto. Ma il mio fine non era indicare l’esistenza di elementi di musica (strumenti, pagine pentagrammate, strumentisti all’opera) come materia di un dipinto. In queste mie incursioni, l’obiettivo cui tendere è sempre la sinestesia intesa in senso ampio: è l’analogia del disegno formale, dei contorni grazie ai quali, come suggerisce l’aforisma di Hugo von Hofmannsthal in Das Buch der Freunde, “Malerei verwandelt den Raum in Zeit, Musik verwandelt die Zeit in Raum”, la pittura trasforma lo spazio in tempo, la musica trasforma il tempo in spazio. In un mio libro di sei anni fa, Musica (Mondadori Electa, Milano 2010), accostavo all’autoritratto con Morte “Konzertmeister” uscito dalle mani di Böcklin un meraviglioso racconto dello scrittore nordamericano Howard Phillips Lovecraft (Providence, Rhode Island, mercoledì 20 Agosto 1890 - ivi, lunedì 15 marzo 1937): The Music of Erich Zann, scritto nel dicembre 1921, edito in “The National Amateur” nel marzo 1922, e poi in “Weird Tales” nel maggio 1925. Com’è noto, la paurosa avventura di un giovane solitario e squattrinato che
trova alloggio in una squallidissima camera di una sinistra casa semicrollante posta in una via da incubo, rue d’Auseil, e che frequenta un ancor più sinistro suonatore di viola, muto, Erich Zann, termina con una scena di orrore e terrore. Il violista, che si ode suonare tutte le sere una musica meravigliosa e spaventosa, una sera riceve la visita della Morte che gli entra dalla sconquassata finestra e lo obbliga a suonare la musica che Thanatos impone. Erich Zann continua a suonare una musica pazzesca pur essendo già morto. Il passo specifico che associai al dipinto di Böcklin è il seguente: “Sarebbe inutile descrivere la musica suonata da Erich Zann in quell’orribile notte. Fu la cosa più spaventosa che avessi mai udito. Lo vedevo in faccia da vicino. Sapevo con certezza che la sua ispirazione era la paura. Egli tentava di fare rumore: si sforzava di tenere a bada, o di soffocare, qualcosa che era fuori, là… che cosa, non riuscivo a immaginare. Ma doveva essere qualcosa di mostruoso. Quel suonare divenne fantastico, delirante, isterico, ma conservò sino in fondo le qualità geniali che lo strano vecchio possedeva. Riconobbi il motivo: era una travolgente danza ungherese, molto popolare nei teatri […]. Poi ebbi la sensazione di udire una nota più acuta e più decisa che non veniva dalla viola: una nota calma, implacabile, piena di significato, che si beffava di tutto. Un suono che veniva da un lontanissimo ovest. “A questo punto, le imposte comin- ciarono a sbattere al vento. Si era levato un turbine nella notte, quasi una risposta alla musica folle che veniva dall’interno della casa. L’ululante viola di Zann superò sé stessa, emettendo suoni che non avrei mai creduto possibili per uno strumento. L’imposta cominciò a sbattere con più violenza, si liberò dal gancio e picchiò contro la finestra”.
L’analogia che irrompe immediatamente mi sembra essere quella di una musica che entri in un’altra musica e la trasformi, adattandola a significati di angoscia, terrore, sfacelo. Penso al grande tema amoroso, esposto dagli archi, nell’ouverture Francesca da Rimini di Ciaikovskij, e alla trasformazione delle membra dei due amanti in orrende e ripugnanti zampe colanti pece nera quando lo stesso tema viene riesposto, con enfasi deformante, fortissimo, dagli ottoni nei registri più aspri e ostili. Penso a un’altra pagina dello stesso autore, nella Suite n. 3 per orchestra, là dove, all’improvviso, una soave ed elegante melodia di danza, anzi, di balletto, attraverso una geniale metamorfosi diventa, nel secondo semiperiodo, il frammento finale della sequenza medievale del Dies Irae. Penso anche a La Valse di Ravel, e a come il nobile e raffinatissimo valzer in stile “wienerisch” va a pezzi, simbolo della civiltà europea frantumata dalla guerra suicida del 1914-1918. Andrea Estero, discutendo con me di questo mio contributo a “Musivisioni”, mi suggeriva anche, fra gli innumerevoli esempi di questa conversione dal dr. Jekyll a mr. Hyde imposta alla musica (ossia, dal nobile e bel volto del quarantacinquenne Böcklin al teschio del macabro compare che “se lo divora”), il virile “tema della decisione” che appare con nobile tensione nel I tempo (“Faust”) della Faust-Symphonie di Liszt, si trasfigura nelle incantevoli movenze che assume nel II tempo (“Gretchen”), e diventa beffardo e infernale nel III tempo (“Mephistopheles”). Qui, tuttavia, la metamorfosi avviene a distanza: negli altri esempi avviene veramente un’orrida mutazione di sembianze. Del resto, nel cosmo, che è energia ed è musica in quanto energia, tutto si divora, come le due galassie Ngc 4038 e Ngc 4039, dette anche “le Antenne”. Una è rosso sangue, l’altra è color avorio. Si stanno mangiando a vicenda: pare, da 100 milioni di anni.