ANTICIPAZIONI
Come Hitchcock, Verdi fraziona lo spazio e il tempo della narrazione. Un affermato regista-autore racconta in “Studi verdiani” il suo rapporto con la drammaturgia d’opera
Il primo titolo verdiano che ho affrontato è stato Otello. Ero quasi un debuttante e penso di essere rimasto sovrastato dall’opera. Ho preso subito coscienza che il luogo dell’azione scenica doveva essere intimamente legato alla drammaturgia e alla musica: la scenografia doveva essere organica sia al dramma che al progetto registico.
Il primo atto di Otello si svolge come una carrellata continua, senza montaggio, un vero piano sequenza cinematografico, alla Hitchcock. Si parte da una battaglia navale e da una tempesta e si termina dentro a un letto, tra le pieghe delle lenzuola, in una vera scena d’amore, senza interruzione.
Come strutturare, nel primo atto, una regia narrativa chiara e che mira a raccontare una storia?
All’inizio abbiamo due gruppi distinti e allo stesso tempo collegati: il gruppo popolo-coro che è impegnato a pregare e un gruppo di solisti che scruta “il fuori” e informa il gruppo popolo-coro sullo svolgimento della battaglia navale in corso.
È ovvio che debba esistere un contatto visivo tra i due gruppi. Essi dovranno, del resto, essere sempre in contatto con il direttore d’orchestra per i giusti motivi musicali e acustici. Se vogliamo seguire una logica naturalistica, quando arriverà Otello dovrà arrivare da lì dove il gruppo di solisti scrutava l’esterno. Non scordiamoci che l’“Esultate!” è indirizzato al gruppo popolo-coro che pregava per la sua vittoria.
In che luogo ci troviamo? Un interno? Un esterno? Il popolo prega sul molo del porto? Sugli spalti delle mura? Prega verso il mare? Verso un altare, quindi in un interno? Dentro una chiesa del porto? Domande fondamentali che implicano decisioni registiche e scenografiche per tutto quello che segue. Se siamo in una chiesa, il luogo deve cambiare nella scena successiva trattandosi di una scena da osteria, e se siamo all’aperto la tempesta può placarsi cosi velocemente? Dopo un tale acquazzone la taverna esterna mi sembra impraticabile! Verdi fraziona lo spazio.
Affrontiamo un secondo punto della regia verdiana: il tempo. Nel breve frammento temporale racchiuso nell’inizio di Otello, accadono molte cose: una battaglia navale, una tremenda tempesta, una nave che entra nel porto, attracca, Otello che sbarca. Una successione impossibile, realisticamente parlando. Laddove Wagner dilata i tempi, all’opposto, Verdi li frammenta e costruisce un micro collage di azioni estese nel tempo senza una minima soluzione di continuità fino a distruggere il tempo naturalistico.
Questo rapporto con lo Spazio e il Tempo è tipico della drammaturgia verdiana e risulta molto attraente per il regista che lo affronta.
Nel primo atto di Rigoletto, nel cambio di luogo tra la scena Rigoletto–Sparafucile e la successiva Rigoletto-Gilda, Verdi passa da un esterno ad un interno come se fossimo già a lavorare alla moviola di un montaggio cinematografico veloce, ritmato al modo di un giallo che non lascia scampo. Nel terzo atto di Un ballo in maschera, quando Riccardo è solo nel suo ufficio e deve andare al ballo, Verdi ci lascia pochi secondi - come accade anche in Otello prima dell’arrivo degli ambasciatori di Venezia - per cambiare luogo. E spesso passa da un luogo intimo, privato, a un luogo pubblico, da un esterno a un interno, in continuità musicale, ma senza continuità di tempo o di spazio.
Grazie a questa infelice esperienza giovanile (non ho piacere di ricordare né il luogo, né l’anno), capii che era meglio non affrontare Verdi fino a quando non avessi capito come affrontarlo. Passarono diversi anni prima che osassi cimentarmi di nuovo con lui. L’occasione fu Ernani, opera cosiddetta giovanile, che pensai mi avrebbe creato meno difficoltà. Nella storia culturale e artistica Hernani di Victor Hugo, con la celeberrima battaglia che seguì la prima rappresentazione alla Comédie Française, a Parigi nel 1830, segna la nascita del teatro romantico francese: si frantuma la regola delle tre unità, caratteristica del teatro classico. Addio unità di tempo, di luogo, d’azione; scompare il motto: un tempo, un luogo, una storia; il luogo unico dell’azione raciniano o metastasiano viene superato, anche se già nel’600 Corneille conobbe non pochi problemi con Le Cid e la decostruzione della regola delle tre unità. La narrazione di Hugo non poteva che aguzzare la sensibilità verdiana.
Fin dall’inizio, Elvira si ritrova con due uomini nella sua camera. Il fatto fece allora scalpore, il Ciel, mon mari! del teatro borghese si ritrovava nel bel mezzo di un dramma storico! E storica è l’incoronazione di Carlo nel concertato del terzo atto. Un falso storico di grande fantasia, al modo di un romanzo di Alexandre Dumas. Sentendo il testo di Hugo si ride, ma nell’opera verdiana mi era difficile trovare una di- stanza ironica, sentivo che l’organizzazione musicale non me lo concedeva. Si ride con il dramma di Hugo, non si ride con il melodramma di Verdi Ma come trattare seriamente una scena in cui dapprima ci troviamo nei “sotterranei sepolcrali che rinserrano la tomba di Carlo Magno in Aquisgrana” per un’elezione, quella di Carlo, che non manca di qualche aspetto democratico; poi, queste stesse urne accolgono i congiurati; subito dopo sentiamo esplodere tre colpi di cannone e il coro “atterrito” esclamare “Carlo Magno imperator!!!”; infine “s’apre la gran porta del sotterraneo, ed allo squillar delle trombe” inizia a sfilare un corteo e ci troviamo nel pieno della maestosa incoronazione, icona del grande concertato verdiano? Tempi e luoghi si susseguono apparentemente in un modo poco realista e logico. Entrano i solisti, entra il coro, tutti già pronti in abito da cerimonia, come se prima fossero rimasti ad ascoltare dietro alla porta. Ma perché Verdi predilige questi raccourci? Con una tale forsennata gestione del tempo e dello spazio, non sapeva che avrebbe reso la vita dura a registi puntigliosi e rigorosi? Grazie a Ernani capii che il modo migliore per salvarsi era di non interpretare la scena ma di montarla come è, freddamente, senza nessun tipo di leziosità, di estetismo, né sofisticatezza intellettuale. Prendere il blocco di marmo e liberarne la scena imprigionata. Direttamente come fa Verdi, senza mediazione, senza nessun sentimento. Questo ho scoperto grazie al lavoro su Ernani, manifesto del teatro verdiano come lo è stato per Hugo. Il motto di questo tipo di teatro è: il grottesco e il sublime.
Ernani ha cambiato il corso del mio stile registico, e quando anni dopo scoprii il teatro russo, Verdi mi aveva preparato. Capii subito il teatro di Vsevolod Emil’evic Mejerchol’d, soprattutto i suoi appunti sul teatro musicale, o teatro d’opera come si usava allora chiamarlo: “Quando un regista non ha le conoscenze tecniche particolari che gli permetterebbero di dare una luce nuova e originale ai vari elementi che costituiscono una struttura drammaturgica, quando non sa fondere in un’armonia unica le iniziative creatrici parziali, allora questo regista, che non ha saputo elaborare un lavoro comune con gli attori, ha chiamato a sé scenografi (decoratori) pseudo moderni (modernisti) per travestire il vecchiume in novità. Con l’aiuto dei loro costumi, delle loro scene, si sforza di coprire di un velo tutta la nudità di una routine immutata”.