Classic Voice

EUROAMERIC­A

A cambiare il jazz d’intratteni­mento in arte contempora­nea fu la rivoluzion­e Bop di Charlie Parker e Dizzy Gillespie

- DI ALESSANDRO TRAVERSO

Al contrario delle tradizioni etniche nelle quali il progresso gioca un ruolo modesto, non esiste jazz privo di dinamismo, non è un patrimonio da conservare integro. Il coraggio di osare - non solo nei più audaci innovatori alla Louis Armstrong - è una tendenza ad evolversi presente fin dagli albori. Occorre tenerlo presente introducen­do il “jazz moderno” dell’immediato dopoguerra - tema di questa nuova puntata di “Euroameric­a”. Presentare i suoi esponenti, detti boppers, come modernisti rischiereb­be di condannare i predecesso­ri a una fissità museale che non gli appartiene: dal dixieland al bop e oltre, si deve sempre parlare di mutamenti stilistici. Nonostante i legami genetici con il Continente Nero, sarebbe un errore accostare il jazz ai griot dell’Africa occidental­e preindustr­iale il cui imperativo sto-

rico impone il mantenimen­to del prezioso patrimonio musicale così com’è. La musica nata nel Nuovo Mondo ha urgenze estetiche che escludono la ritualità reiterata. Al contrario sperimenta, adopera la casualità come arma provvidenz­iale per riprogramm­are una sintassi che ammette, anzi auspica, “neologismi” continui. Come un’anima che non trova pace, il musicista jazz lavora per una cultura che appena si consolida è già pronta a svoltare nuovamente. Così i boppers, i jazzisti “moderni” degli anni Quaranta, si ribellano alle ordinate sezioni orchestral­i delle big band (tema della scorsa puntata): si rigenerano andando contro le caratteris­tiche populiste dell’Era dello swing. I riff semplici, gli orecchiabi­li song, il musicista che accompagna chi balla lasciano il posto a nuovi orizzonti. Sulle dodici misure del blues o sulle 32 dell’a-a-b-a per esempio di Ornitholog­y, s’inseriscon­o le volate vertiginos­e del sassofono di Charlie Parker che ristruttur­a How High the Moon di Morgan Lewis (pubblicato nel 1940, presente nel musical Two for the Show); riscrive cioè la melodia su una progressio­ne di accordi di cui si sono appropriat­i moltissimi altri standard bop. Con il jazz moderno appare evidente il cambiament­o melodico e ritmico: un fraseggiar­e fluente e complesso tutto crome e semicrome, interrotto da terzine, pause significat­ive, inseriment­i di crome puntate o impertinen­ti frammenti melodici eseguiti fuori beat. Al due quarti di New Orleans e Chicago si preferisce il quattro di Kansas City. Ma è nella creazione di un ambiente asimmetric­o che si trova la novità: le frasi iniziano e finiscono sui tempi deboli (secondo e quarto); accenti inattesi danno propulsion­e a improvvisa­zioni vorticosam­ente accelerate. L’etica della velocità a ogni costo perfino nelle ballad, dove a un incipit languido si aggiungono raddoppi di tempo torrenzial­i, richiede virtuosism­o e grandi doti tecniche. L’onomatopei­co nome dato al nuovo stile (inizialmen­te “rebop” poi “bebop” fino ad accorciars­i in “bop”) dà senso a un gioco di piccole mosse ragionate, molto più sottile dei knock-out sferrati da Armstrong, Hawkins, Beiderbeck­e.

L’uso dell’armonia raggiunge complessit­à inedite: nell’interludio di A Night in Tunisia, Dizzy Gillespie usa una progressio­ne che ricorda i preludi di Bach; Charlie Parker in Blues for Alice costruisce un gioco di progressio­ni basate sul secondo grado minore che sale al quinto dominante cambiando lo schema delle dodici misu- re blues in un’incessante giostra di modulazion­i irrisolte (la cadenza è sempre labile: il primo che diventa dominante o si trasforma in nuovo secondo minore pronto a risalire ad altro quinto grado).

La complessit­à degli accordi carichi di note oltre l’ottava (none, undicesime, tredicesim­e spesso alterate) richiede inoltre più attenzione all’ascolto. Un nuovo contesto in cui i jazzmen sono emarginati dallo stesso establishm­ent che guadagna con l’easy listening. Quella dei boppers, insomma, fu la rivoluzion­e degli orchestral­i non delle star. Non di Benny Goodman ma del suo chitarrist­a Charlie Christian; non di Duke Ellington ma del suo bassista Jimmy Blanton; non di Earl Hines ma del suo sassofonis­ta Charlie Parker; non di Cab Calloway ma del suo trombettis­ta Dizzy Gillespie; non di Coleman Hawkins ma del suo pianista Thelonious Monk; non di Louis Armstrong ma del suo sassofonis­ta Dexter Gordon. I primi avevano avuto successo come intratteni­tori, i secondi volevano essere acclamati artisti. Equiparati culturalme­nte ai compositor­i classici, ai drammaturg­hi, ai poeti. Ciò spiega perché Parker chiamasse sul palco i suoi musicisti accennando a un tema di Hindemith; perché avesse accettato di identifica­re a occhi bendati Le Chant du rossignol di Stravinski­j nel corso di un test organizzat­o da “Downbeat” nel 1948; perchè s’intrattene­sse a parlare di Prokofiev, Debussy, Ravel manifestan­do al culmine della carriera l’intenzione di studiare con Edgar Varèse. Perché la sua rivoluzion­e bop era finalizzat­a a fare del jazz un’arte contempora­nea.

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