EUROAMERICA
A cambiare il jazz d’intrattenimento in arte contemporanea fu la rivoluzione Bop di Charlie Parker e Dizzy Gillespie
Al contrario delle tradizioni etniche nelle quali il progresso gioca un ruolo modesto, non esiste jazz privo di dinamismo, non è un patrimonio da conservare integro. Il coraggio di osare - non solo nei più audaci innovatori alla Louis Armstrong - è una tendenza ad evolversi presente fin dagli albori. Occorre tenerlo presente introducendo il “jazz moderno” dell’immediato dopoguerra - tema di questa nuova puntata di “Euroamerica”. Presentare i suoi esponenti, detti boppers, come modernisti rischierebbe di condannare i predecessori a una fissità museale che non gli appartiene: dal dixieland al bop e oltre, si deve sempre parlare di mutamenti stilistici. Nonostante i legami genetici con il Continente Nero, sarebbe un errore accostare il jazz ai griot dell’Africa occidentale preindustriale il cui imperativo sto-
rico impone il mantenimento del prezioso patrimonio musicale così com’è. La musica nata nel Nuovo Mondo ha urgenze estetiche che escludono la ritualità reiterata. Al contrario sperimenta, adopera la casualità come arma provvidenziale per riprogrammare una sintassi che ammette, anzi auspica, “neologismi” continui. Come un’anima che non trova pace, il musicista jazz lavora per una cultura che appena si consolida è già pronta a svoltare nuovamente. Così i boppers, i jazzisti “moderni” degli anni Quaranta, si ribellano alle ordinate sezioni orchestrali delle big band (tema della scorsa puntata): si rigenerano andando contro le caratteristiche populiste dell’Era dello swing. I riff semplici, gli orecchiabili song, il musicista che accompagna chi balla lasciano il posto a nuovi orizzonti. Sulle dodici misure del blues o sulle 32 dell’a-a-b-a per esempio di Ornithology, s’inseriscono le volate vertiginose del sassofono di Charlie Parker che ristruttura How High the Moon di Morgan Lewis (pubblicato nel 1940, presente nel musical Two for the Show); riscrive cioè la melodia su una progressione di accordi di cui si sono appropriati moltissimi altri standard bop. Con il jazz moderno appare evidente il cambiamento melodico e ritmico: un fraseggiare fluente e complesso tutto crome e semicrome, interrotto da terzine, pause significative, inserimenti di crome puntate o impertinenti frammenti melodici eseguiti fuori beat. Al due quarti di New Orleans e Chicago si preferisce il quattro di Kansas City. Ma è nella creazione di un ambiente asimmetrico che si trova la novità: le frasi iniziano e finiscono sui tempi deboli (secondo e quarto); accenti inattesi danno propulsione a improvvisazioni vorticosamente accelerate. L’etica della velocità a ogni costo perfino nelle ballad, dove a un incipit languido si aggiungono raddoppi di tempo torrenziali, richiede virtuosismo e grandi doti tecniche. L’onomatopeico nome dato al nuovo stile (inizialmente “rebop” poi “bebop” fino ad accorciarsi in “bop”) dà senso a un gioco di piccole mosse ragionate, molto più sottile dei knock-out sferrati da Armstrong, Hawkins, Beiderbecke.
L’uso dell’armonia raggiunge complessità inedite: nell’interludio di A Night in Tunisia, Dizzy Gillespie usa una progressione che ricorda i preludi di Bach; Charlie Parker in Blues for Alice costruisce un gioco di progressioni basate sul secondo grado minore che sale al quinto dominante cambiando lo schema delle dodici misu- re blues in un’incessante giostra di modulazioni irrisolte (la cadenza è sempre labile: il primo che diventa dominante o si trasforma in nuovo secondo minore pronto a risalire ad altro quinto grado).
La complessità degli accordi carichi di note oltre l’ottava (none, undicesime, tredicesime spesso alterate) richiede inoltre più attenzione all’ascolto. Un nuovo contesto in cui i jazzmen sono emarginati dallo stesso establishment che guadagna con l’easy listening. Quella dei boppers, insomma, fu la rivoluzione degli orchestrali non delle star. Non di Benny Goodman ma del suo chitarrista Charlie Christian; non di Duke Ellington ma del suo bassista Jimmy Blanton; non di Earl Hines ma del suo sassofonista Charlie Parker; non di Cab Calloway ma del suo trombettista Dizzy Gillespie; non di Coleman Hawkins ma del suo pianista Thelonious Monk; non di Louis Armstrong ma del suo sassofonista Dexter Gordon. I primi avevano avuto successo come intrattenitori, i secondi volevano essere acclamati artisti. Equiparati culturalmente ai compositori classici, ai drammaturghi, ai poeti. Ciò spiega perché Parker chiamasse sul palco i suoi musicisti accennando a un tema di Hindemith; perché avesse accettato di identificare a occhi bendati Le Chant du rossignol di Stravinskij nel corso di un test organizzato da “Downbeat” nel 1948; perchè s’intrattenesse a parlare di Prokofiev, Debussy, Ravel manifestando al culmine della carriera l’intenzione di studiare con Edgar Varèse. Perché la sua rivoluzione bop era finalizzata a fare del jazz un’arte contemporanea.