RICORRENZE
Nel quinto centenario delle 95 tesi di Lutero, riemergono i 36 testi e le 9 melodie attribuiti al Riformatore
“Sorgi o Signore e giudica la tua causa: un cinghiale ha invaso la tua vigna. […] Non possiamo più tollerare che il serpente strisci nel campo del Signore” (bolla Exsurge Domine, 15 giugno 1520). Alle metafore zoologiche e bibliche di Leone X il dottor Martin Lutero rispose con gl’interessi, così come gli dettava il suo rustico temperamento di popolano sassone rimasto intatto sotto la cappa di frate agostiniano e docente universitario. “Anticristo” il papa Medici e i suoi successori, con la giunta di “sterco del diavolo” e “capo di sicari”. “Anticristi” pure gli ebrei, “manigoldi” tutti gl’italiani obbedienti alla “Sodoma romana”. “Falsi profeti” gli anabattisti, “zucconi, briganti e assassini da strada” i contadini in rivolta, “sofisti, troie dannate, sacchi di bestemmie, asini, furfanti” i teologi e gli umanisti che lo criticavano, incluso il mite Erasmo da Rotterdam. In breve: chiunque in materia di religione e di politica non la pensava come lui. Ricorrendo il quinto centenario delle 95 tesi contro le indulgenze, inchiodate sulla porta della Schlosskirche di Wittenberg in data incerta (forse il 31 ottobre 1517), ci potremmo chiedere perché se ne debba occupare proprio una rivista musicale. Gli antichi anatemi paiono dimenticati, oggi che una statua di Lutero troneggia in Vaticano e nella cattedrale di Lund, sede primaziale della ex Chiesa di Stato svedese, si celebrano riti ecumenici per accogliere il successore di quel “Papa Satanissimus” Paolo III che in un opuscolo polemico del 1545 i seguaci del Riformatore ritrassero pendente da una forca in compagnia dei cardinali coi quali stava per aprire il Concilio di Trento. L’anno seguente sarà invece Lutero a morire. Suicida per impiccagione, dice una leggenda nera; o più probabilmente d’infarto.
Una risposta si può trovare nella lettera cautamente diplomatica che Lutero indirizzò il 4 ottobre 1530 allo svizzero Ludwig Senfl, maestro di cappella nella cattolicissima Monaco. Grandi elogi al destinatario e scuse per la mossa compromettente: “I tuoi prìncipi di Baviera, che non mi sono certo molto propizi, li esalto e li venero più degli altri perché favoriscono e onorano la musica. Certo i cultori di
musica celano nell’animo molti semi di buone virtù; coloro che ne sono privi li ritengo assai simili a tronchi e sassi”. Continua affermando che la musica mette in fuga il Diavolo e la tristezza poco meno della teologia, tanto che i profeti della Bibbia predicavano in musica, e conclude inviandogli il tema dell’antifona “In pace in id ipsum”, a lui cara fin dalla giovinezza, pregandolo di armonizzarlo a più voci. Dice di sentirsi solo, odiato da tutti e vicino alla fine (si sbagliava); vorrebbe usare quell’antifona come conforto. Non sappiamo se la supplica fosse accolta, certo è che superava un’ambivalenza radicata nel pensiero di sant’Agostino: la musica sostiene la fede ma seduce i sensi. Maneggiare con cura! Se nel trattato Sulla cattività babilonese della Chiesa (1520) Lutero voleva eliminare dal culto divino “i paramenti, i canti, le preghiere, la musica, i lumi”, nella Messa tedesca del 1526 scrisse invece: “Conserviamo dunque i paramenti della Messa, l’altare, i lumi finché spariranno da sé”. Nel frattempo, a partire dal 1522 e con la consulenza di professionisti come Johann Walther, Georg Rhau
e Conrad Rupsch, raccoglie, arrangia e pubblica con nuovi testi quei Lieder profani in volgare che circolavano nella tradizione orale o in colte armonizzazioni a tre e quattro voci. Sono 36 i testi e 9 le melodie a lui attribuite; una prima raccolta di otto Lieder, cantici di lode e salmi […] da cantarsi in chiesa come in parte già si usa a Wittenberg fu stampata a Norimberga nel 1523: uno anonimo, quattro di Lutero, tre del riformatore boemo Paul Speratus.
Con strofette e melodie facili da memorizzare, quei canti sono l’embrione del repertorio liturgico-musicale protestante, dapprima intonato “choraliter” - all’unisono o con semplici armonie - da parte di tutta la congregazione. Inni di protesta e di battaglia, saranno l’arma più affilata per diffondere i dogmi della nuova teologia e scardinare il rito cattolico. Come quando nel 1532 un commando militante occupa una chiesa di Schweinfurt e al canto di Ein’ feste Burg ist unser Gott (Rocca possente è il nostro Dio; parole e musica di Lutero) azzittisce un anziano prete che stava dicendo Messa.
Ma poi, man mano che i mezzi crescevano, nelle chiese riformate si cominciò a cantare anche “figuraliter”, cioè con l’intervento di cantori iniziati ai misteri della polifonia mensurale fiamminga. Con ingenuo calore che tradisce il dilettante, un Lutero ormai giunto al successo detta nel 1538 la prefazione latina alle Symphoniae jucundae di Rhau: “Quando l’arte e lo studio migliorano e perfezionano la musica naturale, allora si comincia ad ammirare la grande e perfetta sapienza di Dio nella sua opera che è la musica, in cui una voce segue una semplice parte, mentre intorno a
lei tre, quattro o cinque altre giubilano e saltellano […] come in una danza celeste, inchinandosi, allacciandosi e ondeggiando lietamente”. Chi non ci vede il miracolo “è un vero zoticone”.
Nella musica come nella dottrina sociale, dopo il primo anelito alla purezza evangelica viene per Lutero il ritorno all’ordine costituito. Due secoli più tardi, la gran macchina liturgica dello Hauptgottesdienst di Lipsia ai tempi di Bach (vedine la ricostruzione curata da Paul McCreesh in “Classic Voice” n. 103, dic. 2007) parlerà di nuovo il linguaggio della Chiesa Trionfante con una pompa che un papa del Cinquecento poteva solo sognare: predica di un’ora, tre ore quasi ininterrotte di canto fermo, preludi organistici, Kirchenlieder, numeri concertati per soli, coro e orchestra in tedesco e in latino.
Aperto nel dicembre 1545, fra sospensioni e traslochi per rischi di guerra e di peste, il Concilio di Trento attese la XXII sessione (settembre 1562) per discutere la riforma della musica sacra nel quadro generale della liturgia. Morto nell’aprile 1555 dopo 22 giorni di regno, Marcello II aveva fatto in tempo a rampognare i cantori della Sistina per aver profanato il lutto del Venerdì Santo con eccessive fiorettature. “Audiri atque percipi”, far sentire e capire la Parola, divenne l’imperativo per compositori e interpreti; talora le stesse persone. Furono esaminate varie mozioni poi condensate nel canone n. 8, che escludeva dalle chiese “quelle musiche dove negli strumenti o nel canto si mescola qualcosa di lascivo o impuro”. Di fatto non poteva sfuggire alle pie narici cristiane qualche puzzetta di zolfo diabolico nelle “Messe-parodia” sui tenores
di Baisez moi o La bataille; il che compattò la maggioranza dei padri conciliari rinviando ai sinodi diocesani l’applicazione di linee guida tanto vaghe. E comunque si rischiò grosso. Cardinali italiani e tedeschi parevano disposti a “bandire affatto da’ sacrifici la musica”. La salvezza venne dalla delegazione spagnola guidata da Pedro Guerrero Logroño vescovo di Granada. Nelle sue osservazioni finali ai decreti del Concilio (23 agosto 1563), l’imperatore Ferdinando I d’Asburgo appoggiò il loro voto “che non s’escludesse il canto figurato; riuscendo egli spesso incitamento alla divozione”.