Il principio della qualità
Come per la pittura o la scultura, l’apprendimento musicale avveniva nella “bottega”. Si imparava attraverso lavori che, distribuiti dal Maestro, partivano dalla semplice copiatura, per arrivare alla composizione di parti ritenute secondarie. Non diversamente, l’apprendista pittore poteva vedersi assegnato il compito di raffigurare, sullo sfondo, le pecore o gli alberi, le nuvole o i fiori. La bottega funzionava come sistema di raccordo tra formazione e lavoro solo quando il maestro era davvero tale: era cioè padrone del suo mestiere al punto di essere ben radicato nel mondo del lavoro: il sistema garantiva a suo modo anche la qualità dei maestri.
In ambito ecclesiastico le scholae cantorum erano un’altra struttura didatticamente perfetta, dove, per gradi, il discente veniva introdotto senza tante mediazioni nel mestiere a cui intendeva dedicarsi, o, più semplicemente, a un’attività che gli avrebbe permesso di ricavare il necessario per vivere.
In un passato più prossimo avveniva che il titolare di un posto in orchestra si facesse supplire da un bravo allievo. Per non parlare dei neodiplomati impiegati come “maestrini”, o “tirocinanti” negli antichi Conservatori.
“Si potrebbe sognare che, liberati i posti dagli incapaci o dai cialtroni, ci fosse lavoro musicale per tutti i migliori che da anni stanno fuori della porta ad aspettare che si apra”
Tutto questo mondo, ora pressoché scomparso, faceva coincidere, o almeno avvicinava temporalmente, i due momenti dello studio e del lavoro. Quello che è avvenuto negli ultimi decenni, non certo soltanto nel mondo della musica, è andato in tutt’altra direzione: il trionfo del nefasto “parcheggio” dei giovani in corsi sempre più lunghi, di perfezionamento in perfezionamento, all’infinito, riesce malamente a mascherare la triste realtà che, se il giovane affrontasse il mondo del lavoro all’età in cui i suoi padri e i suoi nonni lo affrontarono, non troverebbe le occasioni che i padri e i nonni - all’età loro - trovarono agevolmente. Ed ecco che in Italia questa massa di giovani iperspecializzati (almeno sulla carta), ma senza speranza di trovare un “vero” lavoro musicale (dove per “vero” si intende un lavoro che dia quanto occorre per vivere decorosamente) sono facile preda delle occasioni - che pullulano - di lavori gratuiti o semi-gratuiti. Cioè di non-lavori.
C’è un “domani” - secondo lo schema di questa rubrica - per questo problema? Risiede tutto nell’affermarsi o meno del principio di “qualità” nell’accesso alle orchestre, alle stagioni concertistiche, alla programmazione radio o tv, all’insegnamento nelle scuole e nei Conservatori e nelle Università. Più che in altri ambiti della vita civile la musica ha un vantaggio: è più facile capire, per un giudice minimamente competente e, ovviamente, onesto, se lo strumentista è bravo o incapace, se ha comunicativa come interprete o come insegnante, oppure ispira - come troppo spesso accade - indifferenza o addirittura raccapriccio. Con l’affermarsi del principio di qualità si potrebbe sognare che, liberati i posti dagli incapaci o dai cialtroni, ci fosse lavoro musicale per tutti i migliori che da anni stanno fuori della porta ad aspettare che si apra.
Quella porta, però, è ferocemente presidiata: da coloro che difendono i cosiddetti “diritti acquisiti”, spalleggiati strenuamente da corporazioni travestite da sindacati e da una burocrazia ministeriale dove si annidano incompetenza e talvolta persino arbitrio.
C’è solo da sperare che la voglia e la capacità di far bene - che nonostante le avversità sono ben vive in tanti magnifici giovani e meno giovani - possa fare, come si dice, massa critica per sfondarla, quella benedetta porta.