WAGNER
DI CANTORI
INTERPRETI M. Volle, M. Schade, J. Wagner, M. Werba, A. Dohmen, A Lapkovskaja
DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA Harry Kupfer
TEATRO alla Scala ★★★★/★★★★★
“Gatti ha diretto Die Meistersinger a Salisburgo e a Zurigo. Ma questa scaligera è la sua direzione più bella”
Germania anno zero. L’ambientazione dei Maestri cantori di Harry Kupfer cita Rossellini. Ma la cattedrale gotica diroccata non è più circondata da cumuli di macerie. Le impalcature la sostengono. La vita ha ripreso a svolgersi intorno alle sue mura. E sullo sfondo crescono le gru, si alzano i nuovi edifici. È partita la ricostruzione. Giustissimo. Non solo perché quest’opera non può continuare a vivere “in negativo”, nel continuo tentativo di liberarsi del marchio infamante impresso dal nazismo, giustificando ogni sua messa in scena col denunciarlo (figuriamoci nella Ddr, dove è nato il regista). Ma soprattutto per ragioni più profonde e intrinseche: la necessità, per Wagner, non tanto del ripristino di una civiltà, ma di una sua completa rifondazione. Il punto - che il vecchio Hans Sachs deve ammettere - è che le antiche regole non bastano, è necessaria una sintesi nuova. Certo, “l’arte dei maestri” va rispettata, perché garantisce la tecnica; ma lo spirito, l’anima, della Germania che sta per essere edificata la porta il giovane Walther: non sta nel “piccolo mondo antico” della vecchia Norimberga mostrato dalle ingenue ricostruzioni alla Wolfgang Wagner. L’impostazione visiva è peraltro molto simile a quella del Cavaliere della rosa allestito alla Scala da Kupfer l’anno scorso (e fresco vincitore del Premio Abbiati), con gli sfondi della Vienna imperiale immersi in trascoloranti scale di grigi. Non per niente in questo spettacolo, già visto all’Opera di Zurigo (e ripreso alla Scala con aderenza e una vivacità quasi superiore all’originale da Derek Gimpel), Kupfer recupera in parallelo lo spirito da commedia, che ne è complemento essenziale: non il buffo che si è visto in precedenti tentativi di alleggerimento (McVicar a Glyndebourne si è spinto a fare di Beckmesser un Don Bartolo rossiniano), ma lo sguardo divertito, affettuoso e talvolta ironico, rivolto