L’Italia s’è DESTA
Per la prima volta, nei suoi 90 anni di storia, la Treccani dedica un volume alla musica. E al suo contributo alla cultura del Belpaese. Ne anticipiamo un testo incentrato sui rapporti tra Mazzini e Donizetti. Convergenti sulla velocità
Donizetti e Mazzini condividono più di quanto sembri a prima vista; ciò che li accomuna non è tuttavia una particolare visione politica, che Donizetti ebbe solo parzialmente. È vero che Mazzini nella Filosofia della musica (1836) indicò il compositore come l’ideale guida alla riforma del melodramma militante per la “rigenerazione morale” degli italiani. Ma ciò che li avvicina è qualcosa di più profondo, di cui loro stessi erano consapevoli solo in parte: si tratta di un principio di mentalità, quel “non cosciente collettivo” (Ariès), che si manifesta in strutture mentali molto generali, di cui i comportamenti coscienti sono manifestazioni. La struttura che accomuna i due è quella del tempo, la percezione del tempo, la costruzione del tempo vissuto e storico; più precisamente la “accelerazione” del tempo, che distingue la loro generazione dai “tempi lunghi della Restaurazione” (Meriggi). Diversi storici hanno oggi messo a fuoco questo nuovo principio del “tempo rapido”; Paul Ginsborg ha parlato di “spots of time”, momenti che rivoluzionano l’esistente dopo i quali nulla è più come prima; Koselleck (Storia. La formazione del concetto moderno, p. 67 e p. 120) e Haim
Burstin (Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese,
Roma-Bari, Laterza 2016, pp. 29-33) hanno indicato la “accelerazione” come nuova percezione del tempo storico dopo le rivoluzioni. Ebbene, Donizetti e Mazzini nei loro campi rispettivi sono testimoni di questa mentalità del “tempo accelerato”. Mazzini in questi anni è letteralmente ossessionato dalla “smania di agire velocemente”; scrive infatti: “Quando i tempi sono maturi per distaccarsi dal presente e innoltrare verso il futuro, ogni esitanza è fune-
sta: snerva e dissolve. La rapidità dei moti è il segreto delle grandi vittorie” (Fede e avvenire). Similmente Donizetti piega le forme della tradizione rossiniana e imprime un’accelerazione, puntando su una “nuclearizzazione” del tempo con attimi in cui tutto il dramma si concentra, colpi di scena tipici del mélodrame francese e della nuova concezione di Victor Hugo, quella che significativamente è stata chiamata “dramaturgie frénétique”. Singole parole di grande rilievo (già “parole sceniche”, come le chiamerà Verdi), recitativi con sezioni melodiche fulminanti, il grande crescendo dei suoi finali, costruito con lente onde di suono che terminano improvvisamente al loro culmine (il “pezzo della grancassa” lo chiamò Berlioz): sono tutti strumenti per realizzare quella “nuclearizzazione”, accelerazione del tempo concentrato negli spots of time.
In secondo luogo Mazzini capisce prestissimo la necessità di un “teatro educatore”, unico mezzo per “parlare alle masse” altrimenti escluse dall’azione politica. Nel 1834 per esempio scrive a Tommaseo: “Quanto a parlare al popolo [intende alle classi lavoratrici, anche rurali] e parlerei; ma le vie mancano. Il popolo non può leggere, e non sa leggere”. Sia a causa dell’enorme incidenza dell’analfabetismo, sia per la potenza di suggestione che l’arte sociale deve avere secondo Mazzini, sia infine per la possibilità di far passare messaggi emotivamente forti, il melodramma diviene il miglior strumento per la sua ipotesi di arte sociale. E di conseguenza il compositore da semplice tecnico-artigiano dedito al diletto dell’uditorio, deve forzatamente assurgere al rango di intellettuale, di guida morale per creare la nazione. L’opera diviene la forma d’arte che più adatta al “concetto sociale” progressivo; e Mazzini considera Donizetti “l’unico il cui ingegno altamente progressivo riveli tendenze rigeneratrici, l’unico ch’io mi sappia, sul quale possa oggi riposare con un po’ di fiducia l’animo stanco e nauseato del volgo d’imitatori servili”. Per “rifiorire” dopo il “materialista” Rossini, che lascia “l’anima di chi ascolta interamente passiva”, e l’“individualista” Bellini “lirico fino al delirio”, “la musica ha bisogno di spiritualizzarsi”; per questo Mazzini esige che il melodramma abbia “potenza educatrice” e ispiri “fede sociale”. La conclusione è perentoria: sostituzione dell’estetica del “diletto” con quella del “concetto”, condanna dell’“arte per l’arte”, condanna del materialismo dell’effetto (il “meccanismo dell’esecuzione”), condanna del convenzionalismo delle forme che rompono l’unità; tutti difetti che hanno la colpa di “rompere l’emozione, per mutarla in ammirazione”. Ecco la parola chiave: “emozione”. È sull’emozionalità istintiva che lui pensa di costruire uno spazio comune, il nuovo senso collettivo. Per questi scopi (eminentemente politici, non certo estetici) Mazzini vede in Donizetti il riformatore del melodramma.
Bellini non viene considerato tale, probabilmente perché nella Parigi del 1835 non gravitava come Donizetti in ambienti vicini al mazzinianesimo. Eppure I Puritani contengono il celebre duetto dei bassi, “Suoni la tromba”, secondo Bellini stesso “liberale da far paura”; ma quell’accenno alla morte per la libertà non ha reale intenzione “educativa”, non sentita “fede sociale” mazziniana, e trova eco piuttosto presso una cerchia ristretta di liberali aristocratici allora a Parigi. Lo confermano almeno due considerazioni: nella cerchia di Cristina di Belgiojoso, la Sand e Liszt, viene promossa una composizione collettiva sulla breve cabaletta, sei variazioni sul tema (Hexameron), ad altrettanti pianisti allora di moda a Parigi; così inteso quell’estratto è chiaramente destinato ad usum majorum non certo a masse da formare allo spirito di libertà con mezzi semplici e diretti. In secondo luogo Bellini non ha alcun interesse particolare per questo duetto (d’altronde non necessario alla fabula) e, scrivendo all’amico napoletano Florimo, lascia intendere che è stato introdotto per accattivarsi il pubblico parigino, e che per le repliche in Italia potrà essere eliminato o sostituito.
L’opera che lascia presagire il traguardo auspicato da Mazzini è invece il Marin Faliero, la prima opera di Donizetti per Parigi del 1835 (andata in scena poche settimane dopo I Puritani nello stesso Théâtre Italien). Al libretto originale di Emanuele Bidera, tratto da George Byron, il compositore chiese alcuni interventi ad Agostino Ruffini, fratello del romanziere Giovanni e vicinissimo a Mazzini, con cui divise le dure esperienze della fuga e dell’esilio. Uno dei temi che Mazzini rileva nel Faliero è quello dell’esule, qui nella cavatina del tenore Fernando (“Di mia patria, o bel soggiorno”), una delle figure più frequenti
nella sintassi risorgimentale. Esuli per questioni politiche e “per amor di patria” (non la patria naturale, ma quella politica) si trovano nella pittura (Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria di Hayez, 1831), nella poesia (tutta la discendenza foscoliana dalle Fantasie di Berchet, 1829, a Fusinato, Dall’Ongaro, Mercantini intorno al 1848), nella narrativa (il racconto in versi Il canto dell’esule di Giannone, 1825; l’autobiografico Lorenzo Benoni di Giovanni Ruffini, 1853); numerosi sono poi i ritratti di esule nella lirica da camera, una forma di comunicazione in cerchie limitate in cui il patriottismo prende una forma anche più esplicita, sebbene aliena dalla platea multiclassista del teatro (L’esule di Verdi su poesia di Solera; Il prigioniero di Josephstadt di Antonio Bazzini sui celebri versi di Giovanni Prati; Il canto dell’esule di Angelo Mariani o L’esule di Alfredo Piatti). La figura dell’esule è della massima importanza nella definizione del nuovo concetto di patria non solo come “terra natia”, ma “terra dove si sta bene”; l’esule è colui che abbandona il suolo natio quando non corrisponda alle superiori esigenze di libertà, indipendenza e giustizia. È l’idea della “patria del cuore” di Berchet.
Nelle pagine successive [del saggio completo, ndr] la prosa mazziniana cerca di emulare uno degli effetti teatrali più tipici di Donizetti descrivendo l’effetto del duetto della congiura nell’ultimo atto dell’opera, quando Faliero (doge di parte aristocratica) e Israele Bertucci (vecchio ex-soldato di parte popolare) stringono un patto per salvare la repubblica. Mai situazione potrebbe essere tanto simbolica di tutto quanto si è detto sul “patriottismo politico”. In un lunghissimo periodo, ricco di artifici sintattici, di paratassi abilmente alterate a brusche soste, di stasi descrittive e d’improvvisi scatti narrativi, Mazzini emula quell’effetto musicale “a onda crescente” frequente in Donizetti. È precisamente quel processo di coinvolgimento emozionale, quella “emozione” istintiva, ingenua, prerazionale, quel lento accumulo di tensione che si scarica in uno spot of time; passi come questo mostrano perché Mazzini pensi al melodramma come strumento adeguato a svegliare gli animi, a sollecitare le coscienze, senza distinzioni di classe, di cultura, di censo. Ed è inevitabile che Mazzini si entusiasmi per il terzo atto, dove trova conferma della sua convinzione profonda che non esista nazione senza democrazia, non stato senza repubblica.