Brahms plastico
Anche Alexis Weissenberg fu sostenuto da Karajan. Che trovava in lui qualcosa di completamente diverso dalla pastosa morbidezza del suo suono orchestrale
Non so quanto l’incontro discografico tra la Mutter e Weissenberg abbia trovato un comune denominatore nella particolare attenzione che Karajan aveva mostrato per i due interpreti: risalendo con la memoria alla mia frequentazione salisburghese attorno alla metà degli anni Sessanta mi torna vivo il rilievo con cui Karajan patrocinò il debutto della giovanissima Mutter, accompagnato da quel potente apparato mediatico di cui lo stesso direttore teneva le fila. A qualche anno prima risaliva il rapporto con Weissenberg, subito suggellato da due storiche registrazioni, quella del primo Concerto di Ciaikovskij e del Secondo di Rachmaninov. Che poi Karajan avesse realizzato un’altra registrazione del Ciaikovskij con Richter - seguita alcuni anni dopo da quella con Berman - si diceva qualche non lieve risentimento avesse lasciato da parte del pianista bulgaro. Difficile dire cosa affascinasse Karajan di questo straordinario interprete che si offriva con caratteristiche abbastanza diverse: la nitidezza del suono, un po’ algida, in cui sembrava riflettersi la compostezza con cui sedeva al pianoforte e la determinazione con cui le dita affondavano nella tastiera. Per dire di come il suo prodigioso virtuosismo si giocasse tutto tra i tasti, senza il minimo ricorso a quella gestualità che appare sempre più ricorrente sullo schermo concertistico attuale. Erano i tratti che trovarono in quegli anni salisburghesi la loro sublimazione, abbastanza clamorosa sul piano mediatico, nella esecuzione e correlata realizzazione in disco delle Variazioni Goldberg, opera che nonostante la “storica” rivelazione di Gould di una decina d’anni prima non aveva ancora innescato quel processo a catena cui assistiamo ora, mese dopo mese quasi, seguendo le proposte discografiche; era un Bach contrassegnato da una oggettività un po’ asettica, come rivisitato nella sua magistrale ossatura più che sentito quale più libero stimolo inventivo; come del resto avverrà per le Sonate di Scarlatti di cui Weissenberg ha lasciato una non marginate testimonianza, esecuzioni senza alcuna nostalgia cembalistica (lui che era stato allievo anche della “vecchia signora” del clavicembalo) ma come misteriosi oggetti da delibare con il gioco martellante delle dita, anche se a volte ricreate attraverso la trasparenza di una lente che vela le pagine più raccolte di una magica luce malinconica. La stessa luce fredda che talora affiora dalle esecuzioni di Rachmaninov, altro autore cui fu legato il successo di Weissenberg; un Rachmaninov, spogliato da ogni indugio sentimentalistico ma rivissuto essenzialmente attraverso la intrigante complessità della scrittura; anche qui il virtuosismo non è mai compiacimento bensì chiave d’accesso entro un terreno oltremodo ostico per chi non possegga le mani e i nervi saldi, come appunto possedeva Weissenberg. È il quadro in cui vanno collocate le sue non frequenti collaborazioni cameristiche tra cui, oltre alla collana di liriche di Rachmaninov con Gedda, questo incontro con la Mutter nelle tre Sonate brahmsiane cui si aggiungerà anche la Sonata di Franck. Un Brahms che Weissenberg ci aveva fatto conoscere con le registrazioni dei due Concerti, plastico, organicamente energico.