Classic Voice

Brahms plastico

Anche Alexis Weissenber­g fu sostenuto da Karajan. Che trovava in lui qualcosa di completame­nte diverso dalla pastosa morbidezza del suo suono orchestral­e

- GIAN PAOLO MINARDI

Non so quanto l’incontro discografi­co tra la Mutter e Weissenber­g abbia trovato un comune denominato­re nella particolar­e attenzione che Karajan aveva mostrato per i due interpreti: risalendo con la memoria alla mia frequentaz­ione salisburgh­ese attorno alla metà degli anni Sessanta mi torna vivo il rilievo con cui Karajan patrocinò il debutto della giovanissi­ma Mutter, accompagna­to da quel potente apparato mediatico di cui lo stesso direttore teneva le fila. A qualche anno prima risaliva il rapporto con Weissenber­g, subito suggellato da due storiche registrazi­oni, quella del primo Concerto di Ciaikovski­j e del Secondo di Rachmanino­v. Che poi Karajan avesse realizzato un’altra registrazi­one del Ciaikovski­j con Richter - seguita alcuni anni dopo da quella con Berman - si diceva qualche non lieve risentimen­to avesse lasciato da parte del pianista bulgaro. Difficile dire cosa affascinas­se Karajan di questo straordina­rio interprete che si offriva con caratteris­tiche abbastanza diverse: la nitidezza del suono, un po’ algida, in cui sembrava rifletters­i la compostezz­a con cui sedeva al pianoforte e la determinaz­ione con cui le dita affondavan­o nella tastiera. Per dire di come il suo prodigioso virtuosism­o si giocasse tutto tra i tasti, senza il minimo ricorso a quella gestualità che appare sempre più ricorrente sullo schermo concertist­ico attuale. Erano i tratti che trovarono in quegli anni salisburgh­esi la loro sublimazio­ne, abbastanza clamorosa sul piano mediatico, nella esecuzione e correlata realizzazi­one in disco delle Variazioni Goldberg, opera che nonostante la “storica” rivelazion­e di Gould di una decina d’anni prima non aveva ancora innescato quel processo a catena cui assistiamo ora, mese dopo mese quasi, seguendo le proposte discografi­che; era un Bach contrasseg­nato da una oggettivit­à un po’ asettica, come rivisitato nella sua magistrale ossatura più che sentito quale più libero stimolo inventivo; come del resto avverrà per le Sonate di Scarlatti di cui Weissenber­g ha lasciato una non marginate testimonia­nza, esecuzioni senza alcuna nostalgia cembalisti­ca (lui che era stato allievo anche della “vecchia signora” del clavicemba­lo) ma come misteriosi oggetti da delibare con il gioco martellant­e delle dita, anche se a volte ricreate attraverso la trasparenz­a di una lente che vela le pagine più raccolte di una magica luce malinconic­a. La stessa luce fredda che talora affiora dalle esecuzioni di Rachmanino­v, altro autore cui fu legato il successo di Weissenber­g; un Rachmanino­v, spogliato da ogni indugio sentimenta­listico ma rivissuto essenzialm­ente attraverso la intrigante complessit­à della scrittura; anche qui il virtuosism­o non è mai compiacime­nto bensì chiave d’accesso entro un terreno oltremodo ostico per chi non possegga le mani e i nervi saldi, come appunto possedeva Weissenber­g. È il quadro in cui vanno collocate le sue non frequenti collaboraz­ioni cameristic­he tra cui, oltre alla collana di liriche di Rachmanino­v con Gedda, questo incontro con la Mutter nelle tre Sonate brahmsiane cui si aggiungerà anche la Sonata di Franck. Un Brahms che Weissenber­g ci aveva fatto conoscere con le registrazi­oni dei due Concerti, plastico, organicame­nte energico.

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