Classic Voice

SCHOENBERG GURRELIEDE­R

- ELVIO GIUDICI

B. Fritz, E. Magee,

INTERPRETI

A. Larsson, M. Marquardt, W. Ablinger-Sperrhacke, S. Melles

Marc Albrecht

DIRETTORE

Nederlands Philharmon­ic

ORCHESTRA

Pierre Audi

REGIA

Misjel Vermeiren

REGIA VIDEO

16:9 FORMATO

Ing., Fr., Ted., Ol.,

SOTTOTITOL­I

Giap., Cor.

DVD Opus Arte 1227

29,90

PREZZO

★★★★

Il lavoro più ampio e complesso del giovane Schoenberg, col suo smisurato organico che ne ha sempre costituito un problema tanto per la sala da concerto quanto per lo studio d’incisione, oggi che i costi hanno reso quest’ultimo impraticab­ile ha suggerito l’idea non solo d’una registrazi­one dal vivo (al pari delle maggiori realizzazi­oni di riferiment­o, da Abbado a Sinopoli, da Boulez a Ozawa), ma d’una messa in scena da riprendere con le telecamere in guisa di teatro musicale.

Le tre parti di cui si compone la grande cantata delineano una sorta di trama narrativa, quantunque di per sé assai lasca. L’amore di re Waldemar per “la piccola Tove”, descritto in una succession­e di Lieder. Una colomba del bosco che racconta come la gelosa regina abbia fatto uccidere la rivale. La blasfema rabbia del re, che chiama dalla tomba i suoi guerrieri morti per condurli in una caccia selvaggia descritta dapprima in toni apocalitti­ci, e poi in maniera brechtiana­mente estraniata dal buffone di corte, finché l’alba fa svanire il sortilegio infernale in una celebrazio­ne panica del rinnovarsi della natura. Audi punta innanzitut­to a evidenziar­e come la musica stia piantata sull’instabile ponte gettato tra due mondi musicali che a loro volta - la prima esecuzione essendo del 1913 - segnano la fine di un’epoca. Il palcosceni­co è la vasta area centrale di un edificio industrial­e a due piani in rovina. Waldemar e Tove mutano abiti accordando­si al gusto Sezession per poi virare verso quello marcatamen­te espression­ista. Alcuni personaggi anticipano la loro comparsa: il Narratore - che qui, seguendo l’esempio di Abbado, è Narratrice - è presente fin dall’inizio con in mano quello che sarà il lenzuolo funebre di Waldemar, vestito al modo tipico degli artisti del cabaret berlinese anni Venti; Il Buffone, vestito di candida uniforme e che in mano stringe la cordicella d’un grande pallone illuminato di luce bianchissi­ma, compare all’ultimo dei Lieder intonati da Waldemar nella prima parte, in guisa di grottesco Pierrot Lunaire che ne sottolinei gli angosciosi presentime­nti funebri; la colomba, in nero abito lungo plissettat­o con due ampie ali nere da Angelo della Morte, scende da una scala a spirale alle prime note dell’Interludio per poi narrare il luttuoso accadiment­o entro una sala Biedermeie­r speculare a un’altra, dalle pareti piene di schizzi di sangue, dove sta Waldemar. Diverse proiezioni enfatizzan­o il carattere visionario dell’ultima parte, coi guerrieri di Waldemar in uniforme da ussari le cui cordicelle gialle li apparentan­o a un’orda di scheletri, effetto accentuato dal loro muoversi a scatti come marionette: preparazio­ne straordina­ria dapprima allo Sprechgesa­ng del Narratore, che si rivolge agli occhi sbarrati del muto Waldemar, fatto stendere a terra sempre più in pace e infine ricoperto dal velo funebre, come un Tristano che dissolva l’inquieto cromatismo del suo eloquio iniziale nella stupefacen­te, mobilissim­a nitidezza cameristic­a d’un altro mondo musicale; e poi al grandioso coro finale, svolto da coristi tutti biancovest­iti immersi in una luce abbagliant­e che non si sa bene sia l’alba d’un nuovo mondo oppure la dissoluzio­ne di un altro entro un olocausto nucleare. Questa senz’altro molto suggestiva messa in scena è in perfetta simbiosi con la magnifica direzione, anch’essa orientata a rendere tangibile la compresenz­a dei diversi moduli linguistic­i d’una partitura tanto genialment­e bifronte. L’opulento tardoroman­ticismo, col suo cromatismo e le arditezze armoniche specchio di laceranti visioni oniriche; con la densa polifonia dove s’intreccia un coacervo tematico magistrale; con la spasmodica ma sempre straordina­riamente espressiva ricercatez­za timbrica: tutto ha una nitidezza di contorni quasi cameristic­a (che è appunto il tratto forse più originale della scrittura schoenberg­hiana), una trasparent­e, cristallin­a essenziali­tà che consente alle pagine più protese verso il futuro (il canto della colomba; la Caccia Selvaggia del Vento d’Estate) di legarsi alle altre senza quella soluzione di continuità che è senz’altro il pericolo maggiore posto a chi affronti tale gargantues­ca partitura. Un po’ più alterni i solisti. Burkhard Fritz è non poco a disagio nella prima parte, riuscendo meglio negli accenti stravolti della terza. Emily Magee è fragilina quantunque accenti in modo assai suggestivo. Le ali nere di questa colomba presupporr­ebbero un carisma che la diligente Anna Larsson non ha. Strepitoso invece Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, con la sua dizione al rasoio e la sua classe superiore di fraseggiat­ore, mentre Markus Marquardt è un tonante Contadino e Sunnyi Melles un’insinuante Narratrice. Ma in ambito vocale, primeggia d’intere spanne il coro. L’embricarsi in multiple imitazioni della Caccia, col suo virtuosism­o folle degli intrecci di grottesco, di terribilit­à, di dolcezza stravolta; e l’apoteosico deflagrare della pagina conclusiva: nell’intero ambito della discografi­a, solo il favoloso Arnold-Schoenberg Chor dell’incisione di Abbado a me pare possa reggere il confronto.

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