PICCOLO Scala
Festeggiare sette decenni del Piccolo Teatro non può prescindere da Strehler, che l’inaugurava nel 1947 dando vita a un “gemellaggio” artistico con il Piermarini lungo 28 titoli. Che nel decennio scaligero di Grassi divenne programmatico. E il cui spirito
Quando un’istituzione teatrale raggiunge la rispettabile età di settant’anni, viene spontaneo chiedersi se, quando, come, perché essa abbia esercitato - ed eventualmente continui a esercitare un’influenza sui modi d’essere del teatro in generale e italiano in particolare. Trattandosi del Piccolo Teatro, logico provarsi a esaminare il suo eventuale specchiarsi nell’altro punto fermo della cultura teatrale, milanese e non solo, che è la Scala.
La presenza di Giorgio Strehler al Piermarini è quasi contestuale al nascere della sala di via Rovello, e costituisce il suo esordio nel teatro musicale: 1947, prima stagione della Scala ricostruita, Traviata direttore Serafin con protagonista Margherita Carosio. Non l’ho vista, e se ne è parlato sempre molto poco. Ma ho interrogato spesso il molto compianto Rubens Tedeschi in merito a quello spettacolo che considerava uno dei cardini della propria esperienza di critico musicale. Nel parlarne, sottolineava spessissimo il termine “teatro”, puntualizzando come per l’epoca fosse del tutto insolito che qualcuno non si limitasse a coordinare la messinscena ma v’imprimesse una cifra marcatamente personale (“regista” era termine ancora poco comune da noi nel teatro di parola, e pochissimo in quello musicale rispetto ad esempio alla Germania, dove nello stesso anno un Walter Felsenstein aveva assunto la guida della Komische Oper): cifra il cui effetto si rivelò di grande novità. Per le scene, innanzitutto, che subito denunciavano il gemellaggio essendo firmate da Gianni Ratto che stava gettando le basi di alcune delle coordinate ambientali più tipiche del Piccolo. Scene nate non in autonomia estetica
com’era d’uso (uno splendido uso; le tele dipinte degli artisti italiani sono una delle nostre maggiori glorie artistiche, e spiegano perfettamente perché i teatri italiani furono tra gli ultimi a rinunciarvi, e anzi oggi sia di moda un loro revival) e in particolare lo era proprio alla Scala, dove lo scenografo principe era e restò a lungo Nicola Benois; bensì in stretta simbiosi con la regia: nello spartire lo spazio così da consentire una fluidità di movimenti per le masse, e nell’imprimere agli ambienti una “tinta” consona a una gestualità non più d’affetti e quindi interscambiabile da titolo a titolo, bensì mezzo per esplicitare e far evolvere psicologie, specifica pertanto per ciascun lavoro. Le due feste, ad esempio. Nient’affatto eleganti o sfarzosamente “d’epoca”: marcatamente pacchiane, ma anche intimamente tristi, all’insegna di quella sorta di malinconico disfacimento che sa di bordello alle prime luci dell’alba. Atmosfera già precorritrice dei futuri El nost Milan e L’opera da tre soldi di dieci anni dopo in via Rovello: ma i movimenti - parchi, improntati a una durezza secca e incisiva - trovavano da subito una stretta affinità col naturalismo alla Zola che tanto stupore aveva suscitato assistendo all’Albergo dei poveri di Gorkij con cui s’era inaugurato pochi mesi prima il Piccolo. Va da sé (vedo ancora il tipico sorrisetto ironico di Tedeschi) che “quello squallore postbellico” non piacque per niente, e la successiva Traviata tornò al sacrosanto chic “da Scala”, comprensivo di luccicante tiara in testa alla Tebaldi formato Vera Signora.
L’inconfondibile imprinting Piccolo Teatro, il ripensare criticamente storia e personaggi trasformando in spazio scenico quello che semplici tele dipinte rendono invece luogo di un’azione: non fu negli anni successivi l’asse portante della drammaturgia d’una Scala programmaticamente diversa da quella d’una Komische Oper, che d’altronde restò esempio abbastanza isolato nell’Europa tutta. Però, all’interno d’una purtroppo ben più consistente sclerosi drammaturgica che aveva in Margherita Wallmann la sua suprema patronessa, vi agì come una piccola ma persistente dose di lievito: così che l’innesto d’un regista di prosa sempre più affermato trovò via via riscontro - quantunque non con la frequenza che sarebbe stata auspicabile - nei massmediaticamente ben più celebrati sette spettacoli di Luchino Visconti, prodromo ad arrivi di personalità d’analoga provenienza (Franco Enriquez, Franco Zeffirelli, Giorgio De Lullo, Luigi Squarzina) che estendevano così al mondo dell’opera la loro profonda alterazione del linguaggio con cui - in parallelo all’azione degli Stabili - andava sempre più marcatamente esprimendosi il teatro di parola italiano, fin lì dominato dal capocomicato. Un’impronta quella del Piccolo, che veniva spontaneamente assunta da tutti gli artisti in varia misura coinvolti nel suo procedere. Virginio Puecher, ad esempio. Assistente di Strehler ma anche regista in proprio, il suo linguaggio scabro, severo, nel quale robusto rilievo assumeva quella denuncia sociale (gran scalpore suscitò la sua Istruttoria di Peter Weiss, che tra l’altro si giovava delle musiche di Nono) che spesso gli veniva rimproverata come troppo invadente dalle signore bene milanesi ancora sospettose nei riguardi dell’eversiva sala di via Rovello: l’appuntamento di Puecher col Wozzeck, concretizzatosi alla Piccola Scala col testo di Büchner e a Firenze e Roma con l’opera di Berg, era si può dire predestinato. In entrambi, la “cifra-Piccolo” era evidentissima in una gestualità che, nel suo rifuggire da ogni retorica o enfasi, oggi definiremmo forse minimalista, però si costruiva abbastanza lontana sia dalla replica pedissequa del gestire quotidiano sia, men che mai, dall’enfasi strappacore: c’era sempre - diversa ma affine agli stilemi strehleriani - quella sorta di distanziamento critico memore degli insegnamenti brechtiani, calati tuttavia in un contesto di commossa, dolorante umanità che, nel denunciare, affermava orgogliosamente se stessa.
Ma senza dubbio, la parentela tra Piccolo e Scala si stringe attorno alla figura di Giorgio Strehler. L’imponente arco delle sue regie scaligere (28) riflette, come non potrebbe non essere, il percorso teatrale da lui compiuto al Piccolo. Nell’ambito delle scene di Gianni Ratto debitrici della sua esperienza maturata negli studi con Gordon Craig, e facendo vestire i personaggi dalla finissima Ebe Colciaghi: il mar-
cato naturalismo dei primi anni (se le scarpe lanciate dalla Callas alla fine del primo atto di Traviata provocarono gran chiasso, altrettanto se non di più aveva suscitato otto anni prima il sigaro fumato sprezzantemente davanti a Violetta dal Germont di Ugo Savarese) scioglie ogni rischio di bozzettismo in quella lieve, scabra serietà con cui Strehler va elaborando il suo sempre più inconfondibile stile da “melodramma epico”. Partito Ratto per il Brasile, comincia al Piccolo la mai interrotta altalena tra Ezio Frigerio e Luciano Damiani, puntualmente riflessa fin da subito alla Scala con l’Angelo di fuoco di questi e Luisa di quello. Il rigoroso sorriso dei Goldoni strehleriani del Piccolo - fratelli siamesi di quelli di Visconti - lo si ritrova nella stilizzata geometria del Cappello di paglia di Firenze e soprattutto nel Matrimonio segreto con cui s’inaugura nel 1955 la mai abbastanza rimpianta Piccola Scala. Ogni rischio di farsa spazzato via dal sorridente - e giammai ridanciano - ritmo da commedia; e ogni scoria sentimentalistica innalzata nei cieli dell’elegia: con la stessa acuta finezza con cui a Parigi, al Marigny, Barrault e la Renaud ponevano i grandi classici settecenteschi sotto una luce del tutto nuova, quantunque forse mai altrettanto luminosa di quanto splendesse al Piccolo nei sublimi esempi strehleriani delle Baruffe chiozzotte e del Campiello. Nemmeno è a dire quanto uniti da cordone ombelicale col Piccolo fossero i tre Brecht montati da Strehler alla Piccola e Grande Scala: ma più rivelatori ancora furono i Verdi e i Mozart degli anni Settanta, durante la sovrintendenza del cofondatore del Piccolo, Paolo Grassi. Specchio perfetto, i primi, di quel realismo poetico intriso di pessimismo storico elaborato al Piccolo con gli shakespeariani Lear e Tempesta. E sublime connubio, i secondi, di pensieroso sorriso goldoniano e dell’illuministica utopia sociale d’impronta massonica. Il Ratto dal serraglio che giunse alla Scala nel 1972 (e che si rivedrà adesso a metà mese) nacque nel 1965 a Salisburgo: nella madreperlacea luce che i frequentatori del Piccolo conoscevano così bene, la stilizzazione degli stilemi comici della Commedia dell’Arte desunti da quella summa del teatro strehleriano che è l’Arlecchino servitore di due padroni abbraccia - mozartianissimo abbraccio - la requisitoria che il Lessing di Nathan il saggio (di soli tre anni antecedente il capolavoro mozartiano;
e allo stesso Lessing, Strehler tornerà nel 1983 con Minna von Barnhelm,
stingendo di melanconia quello stesso ottimismo della ragione) svolge contro l’intolleranza.
A fungere da gemello incompreso del Ratto, lo stile linguistico del Piccolo di Strehler aveva trovato nella stessa Salisburgo un vertice supremo nel Flauto magico. Accolto da uragani di fischi e da critiche austriache negativissime; incompreso dai suoi interpreti; osteggiato apertamente da Karajan; deriso in casa nostra (“Mozart svilito in Piedigrotta”) dalla mens nana in corpore nano che fungeva da critico musicale del “Giornale”: in quello spettacolo che Strehler stesso considerava tra i suoi risultati più alti, fiaba per bambini e filosofia per grandi trovavano la loro perfetta simbiosi nella raffinatissima rivisitazione dell’artigianato teatrale che al Piccolo era cifra da sempre riconoscibile.
Come s’imparò a riconoscere quella d’una suprema eleganza figurativa spinta verso canoni di sontuosa ricercatezza (la tanto celebrata lacca nera in cui tutto si riflette) che, se verso la fine ha sfiorato dappresso il sospetto di manierismo nell’esasperata ricerca sui materiali e sulle luci, nei suoi primi capitoli ha stretto legami più che mai serrati tra Piccolo e Scala. Lohengrin
scolora la mistica del cigno in baluginanti lampi guerreschi. L’amore delle tre melarance porta all’estremo la capacità espressiva del gesto, linguaggio fondante del teatro di Strehler. Era l’antica lezione che Etienne Decroux aveva assimilato nella Parigi di JeanLouis Barrault giovane, e portata alla scuola del Piccolo negli anni cinquan- ta per fornire contributo importante allo sforzo colà intrapreso di superare Stanislavskij. Partito lui, quel cammino fu conservato e approfondito grazie all’esperienza di Marise Flach che coordinò tutti i movimenti mimici degli spettacoli strehleriani, dando uno dei frutti più succosi in queste Melarance dove l’esplosiva frenesia vitale (Sergio Tedesco che appeso a una fune volava da un palco di proscenio sulla destra al corrispondente di sinistra, sorta di Arlecchino di Moretti-Soleri all’ennesima potenza) di colpo sapeva stemperarsi in luoghi di magici incontri sensuali: frenesia e magia che però erano sistematicamente ricondotti alla loro essenza di meccanismo teatrale, il falso della rappresentazione impiegato per svelare l’eterna verità delle umane e più elementari pulsioni.