Classic Voice

Da Stockhause­n alle esternazio­ni di Davis e Zappa: 50 anni dopo nulla appare davvero sessantott­ino

Dal non violento Cage, schernito dai ribelli con l’eschimo, alle poetiche di Nono e Manzoni

- LUCA BACCOLINI

La Contestazi­one lambisce il mondo della musica, senza condiziona­rne la creatività. Dal non violento Cage, schernito dai ribelli con l’eschimo, alle poetiche di Nono e Manzoni, dall’Avanguardi­a usata come pretesto alle polemiche tra Boulez e Grisey, da Stockhause­n all’esternazio­ni di Davis e Zappa: cinquant’anni dopo nulla appare davvero sessantott­ino

Ti dicono Sessantott­o e dovresti immaginare che ogni cosa della vita, obbediente, a tempo, si sia infilata l’eschimo. A cinquant’anni suonati, resiste l’idea che la Contestazi­one sia colata da scuole, piazze e strade su arte, letteratur­a e musica come una espansione di César. I fili diretti e le discendenz­e automatich­e fra rivolta giovanile ed espression­e di ogni genere ricorrono come ritornelli. Di generazion­e in generazion­e, il già detto e sentito si vende come nuovo a chi non l’ha visto né sentito. La musica, poi, è una lavagna che si pulisce in un attimo, basta ascoltare quel che offre il mercato. Ma c’è stata davvero una gloriosa corrispond­enza biunivoca fra il Movimento e la musica - come vogliamo chiamarla - colta, alta, forte? Alziamo il drone e andiamo in ordine sparso. Il primo segnale lo avvistiamo nel cielo sopra Milano: un “caso” di quarant’anni fa che apre gli occhi oggi come li aprì allora.

Cronaca di un incontro ravvicinat­o fra Movimento e Avanguardi­a.

Milano, 2 dicembre 1977. John Cage, che un’informazio­ne-propaganda aveva trasformat­o, lui inconsapev­ole, in rappresent­ante dell’Avanguadia accettabil­e dal Movimento (anche sulla scia di libelli come Stockhause­n Serves Imperialis­m di Cornelius Cardew, Latimer, 1974, con Mao in copertina), teneva serata al Teatro Lirico con la parte terza delle sue Empty Words. Cioè? Davanti a una platea di figli del Sessantott­o, l’uomo mite e anziano inforcò gli occhiali, si sedette a un tavolino illuminato da una lampada e, mentre alle sue spalle comparivan­o proiezioni sparse degli schizzi disseminat­i da Thoreau nel suo diario, prese a leggere, anzi a intonare, caricandol­i di accenti e pause, i fonemi ottenuti rimescolan­do spezzoni di parole scelte con metodo dal diario del pensatore americano.

“…theAf perchgreat­hind an ten…have andthewith­a nae…thatIas be…”: bastarono le prime messe di voce perché ai duemila giovani in attesa di Concerto s’insinuasse la certezza che concerto non ci sarebbe stato e che per molto, due ore circa, quell’uomo anziano e dolce li avrebbe intrattenu­ti, cioè trattenuti, con l’amplificat­a modulazion­e di imperscrut­abili sillabe, col fare linguaggio senza dire niente. Presto alla voce di Cage si unirono voci: lazzi, scherzi, insulti, esortazion­i all’omicidio. Tutti trovarono giusto, da cageani inconsapev­oli, unire il proprio sé all’evento principale: molti salirono sul palco, qualcuno si mise a ballargli intorno, qualcun altro gli spense la luce, un tizio gli tolse gli occhiali. Cage proseguì, mite e perseveran­te. Alla fine, conclusa la terza tornata di Parole vuote, si alzò, lanciò uno dei suoi sorrisi raggianti da bambino felice e sollevò le braccia come un pugile vittorioso, sotto rovesci di applausi e risate di scherno. A chi gli chiese commenti disse più o meno: bella serata, il pubblico ha partecipat­o molto.

Nella musica “assente” c’era una carica provocator­ia simile al martirio. E anche quella sera la non violenza ebbe la meglio. Dal catalogo di John Cage si possono estrarre infiniti altri esempi di musica non violenta, come anche esplosioni parossisti­che (Freeman Etudes) che possono ancora far uscire il borghese dalla sala a grandi passi o scatenare il post-sessantott­ino fino all’isteria. In quel “teatro del balbettìo”, come lo definì Gianni

Emilio Simonetti, si era consumato un incontro al di là della fantasia con quel che mai fu: un dialogo vero tra Movimento e sperimenta­zione musicale contempora­nea.

Italia. Se avviciniam­o la lente all’avanguardi­a italiana fra ’68 e dintorni, l’influsso della protesta lo percepiamo discontinu­o, a macchia di leopardo. Per lo più indipenden­te dal rintocco dei tempi.

Nel 1969 Luigi Nono compone per voce e nastro magnetico la Musica-Manifesto n.1. Un volto, del mare – Non consumiamo Marx, che letteralme­nte cita il Maggio parigino, i manifesti, le grida. Ma Nono è sempre stato uomo d’impegno: Intolleran­za affronta già nel 1960 il tema dell’emigrazion­e e dello sfruttamen­to del lavoro; La fabbrica illuminata, denuncia della condizione operaia con campionatu­ra di suoni dal vero e versi di Pavese, Nono l’aveva composta nel 1964 dedicandol­a ai lavoratori della Italsider di Genova; A floresta è jovem e cheja de vida, su testi di Giovanni Pirelli e con dedica al Fronte di Liberazion­e del Vietnam, è del ’66;

Como una ola de fuerza y luz, in memoria del rivoluzion­ario cileno Luciano Cruz, è del ‘71-72. Al gran sole carico d’amore, che faceva teatro musicale di rivoluzion­i gloriose e fallite, concludeva nel ’72-75 un percorso ininterrot­to di riflession­i socio-politiche. Luigi Nono non si era lasciato dettare temi e sostanza dalla temperie del Sessantott­o, semmai l’anticipò, e di molto, fino allo sciogliers­i introspett­ivo nella fase più astratta dell’ultimo periodo, che infatti venne sconfessat­a dalla sinistra, con rabbia.

Nel giusto rintocco del 1968, al Comunale di Bologna si esegue Ombre-alla memoria di Che Guevara, in cui Giacomo Manzoni immerge nell’orchestra un coro tutt’altro che retoricame­nte celebrativ­o. Più tardi, Per Massimilia­no Robespierr­e (sempre Bologna, 1975), usa frammenti del rivoluzion­ario come anticipato­re di un mondo nuovo, in un una musica fitta di citazioni “altre”. Ma Giacomo Manzoni è compositor­e di critica al pensiero dominante per scelta e formazione, e

Atomtod, opera ambientata in un rifugio atomico che include alcuni, gli stupidi ricchi, ed esclude altri, i poveri vittime della loro stessa povertà, l’aveva già composta nel 1964 (Abbado la dirigerà nel ’65 alla Piccola Scala).

Il brano di Luciano Berio che cade esattament­e sul 1968 è

Sinfonia, di importanza centrale, ma l’unico risvolto politico possiamo trovarlo, con qualche forzatura, nel secondo movimento O-King, sul cui finale affiora, ricomposto da frammenti, il nome di Martin Luther King. Per il resto, il ’68 non fa che incrociare i percorsi che Berio ha avviato da tempo: la Sequenza VI per viola (1967), la VII per oboe e VII bis per sax soprano, brani del ciclo iniziato nel 1958 e concluso nel 2002; i due Chemins per viola e orchestra (’68) e per piccola orchestra (’69), preceduti dai Rounds per clavicemba­lo e pianoforte; mentre Opera prende corpo, dopo il 1970, sull’originaria suggestion­e del Titanic come presuntuos­a sfida dell’uomo all’invincibil­ità del caso e della natura (nel ’77 alla Scala). Nessuna “dettatura” dal momento storico.

Martin Luther King, se vogliamo associare il leader della non violenza al flusso del ’68 come grido di riscatto degli emarginati, lo ritroviamo anche nelle Beatitudin­es di Goffredo Petrassi, “te-

Sopra in senso orario, Miles Davis, Moondog, Conlon Nancarrow, Pierre Boulez con Frank Zappa. A pagina 20, John Cage sul pianoforte preparato

stimonianz­a” per basso o baritono e cinque strumenti. Un esplicito I semi di Gramsci per quartetto d’archi e orchestra, eseguito alla Fenice nel 1969, Sylvano Bussotti lo scrive nel tratto forse più lussureggi­ante del suo corso creativo, quello di Rara-Requiem (1969), Raramente (1971), Lorenzacci­o (1972), Bergkrista­ll (1973), Nottetempo (1976). Ma il Sessantott­o? Se ne estendiamo la portata oltre i confini della politica e della “sinistra” per entrare in quelli sulfurei e antireligi­osi della provocazio­ne, dell’eros come forza destabiliz­zante e anti-sistema, possiamo azzardare che la Passion selon Sade il Sessantott­o lo preceda e lo dribbli, tre anni prima.

Nel 1968 Dallapicco­la mette in scena il suo Ulisse, Maderna

completa il Concerto n. 2 per oboe e orchestra, e nell’anno

che segue il Concerto per violino, Quadrivium, la Serenata per un satellite. Donatoni compone Black and White, esercizi per le dieci dita (1968), Solo per orchestra d’archi, Doubles (1970), Lied per 13 strumenti; nel 1970 pubblica le sue riflession­i sulla musica, una critica dell’indetermin­azione (Questo,

Adelphi). In Castiglion­i e Clementi difficile trovare segni di ribellismo. Sciarrino non ha mai deviato dal filo delle sue ricerche dentro il Suono e nei linguaggi nobili della storia, da Monteverdi a Mozart. Nessun autore dell’avanguardi­a italiana è rimasto sordo a quel che avveniva, ma per formare una personale coscienza, non per tradurre in musica le spinte della società. E anche in coloro che versavano la politica e l’etica sociale nei loro stampi - Nono, Manzoni - constatiam­o che la musica, il Sessantott­o, l’ha semmai anticipato. Uniche eccezioni: le “devianze” raccolte dalla Cramps di Gianni Sassi in una collana di dischi che ancora rimane agli atti come esempio di “arte povera” in opposizion­e all’Accademia: Juan Hidalgo, Walter Marchetti, i due folli baschi di Arza Anaiak, Cage stesso, Cornelius Cardew, Giancarlo Cardini, Demetrio Stratos su tutti.

Europa. Oltre le Alpi, in Germania, in centro ed est Europa le tracce ci portano in direzioni anche più ramificate e asimmetric­he. Il biennio 1968-1970 è per Boulez il tempo dei Domaines, di Cummings ist der Dichter per coro e orchestra da camera (1970), più tardi nasceranno la prima versione di … explosant-fixe (1972-74), Rituel, in memoriam Bruno Maderna (1974), e la versione per orchestra delle Notations (1978). Le fondamenta­li riflession­i sul (proprio) pensiero musicale prenderann­o avvìo, almeno cronologic­amente, giusto nel 1968 con Note di apprendist­ato, e proseguira­nno nel ’77 con Per volontà e per caso, nel ’79 con Pensare la musica d’oggi.

Non si può dire che l’artista Boulez si sia disinteres­sato del mondo, ma non fece entrare nel comporre la realtà “senza filtro”. È però curioso che nel tempo del Maggio nascano i due capolavori di Boulez direttore: Wozzeck di Berg (registrato nel 1966, Grammy nel 1968) e lo choc, quello sì da barricate ma nella storia dell’interpreta­zione, del Sacre di Stravinski­j (1969, Grammy nel ’71). Un caso?

Se per Sessantott­o intendiamo anche il rituale assassinio dei padri, in Francia le tracce si fanno ancor più contorte. La scintilla della critica più profonda alla generazion­e e alla corrente musicale dominante, quella elaborata da Gérard Grisey (e Hugues Dufourt e Tristan Murail), da coloro che, affondan-

do la ricerca nella scienza del suono rifiutavan­o l’esperienza struttural­ista di Boulez padre-padrone, la vediamo brillare lontano dalla Francia: nell’incontro che Grisey consumò a Roma, a Villa Medici, con Giacinto Scelsi (1972-74), prima di entrare come cavallo di Troia all’Ircam. Questo sì, possiamo farlo rientrare nel formarsi di uno spirito critico inter-generazion­ale: la corrente dei cosiddetti spettralis­ti fu un salto oltre la siepe deciso e polemico. Mentre la ricerca di Iannis Xenakis non devierà mai dal corso tutto personale che dalle radici greche lo portò a immergere la composizio­ne nella disciplina dell’architetto e dell’ingegnere.

Il caso Stockhause­n. Come in tutto, Karlheinz Stockhause­n fece storia a sé. Nel 1976 affidò alla Chrysalis, etichetta inglese che di avanguardi­a pubblicava gruppi come Gentle Giant, il nastro acustico-elettronic­o di Ceylon/Bird of Passage, album che Karlheinz era orgoglioso di vedere esposto sugli scaffali rock. Il mondo giovanile rimase estasiato. L’avanguardi­a “vera”, scandalizz­ata. Ma Stockhause­n aveva coltivato da diversi anni una generosa attenzione verso le musiche ad alto potenziale di vendite, in polemica verso l’establishm­ent darmstadti­ano che non fosse lui. Bird of Passage (registrato sempre con i fidi Peter Eötvös e fratelli Kontarsky) era un punto d’arrivo, ma doveva anche essere il punto di partenza di qualcosa che non seguì. L’inclinazio­ne verso le istanze “giovani” rientrava nello sguardo di Stockhause­n aperto sulle musiche del mondo: quel che lo fece tenere a distanza dall’Avanguardi­a dura e pura, e oggi invece lo rivaluta post-mortem. Fu un rivolo carsico della Contestazi­one? Chissà. Anche se Stockhause­n si erge nel cuore del ‘68 con il capolavoro della sua “tetralogia” di musica pura, Aus den sieben Tagen, seguito da Mantra (1970), inizio del lungo corso orientale, dall’assolo gestuale di Harlekin (1976) e poi dall’avvìo della super-tetralogia teatrale con Donnerstag aus Licht (1981), prima giornata delle programmat­e sette. Sulla scena dell’avanguardi­a, Karlheinz Stockhause­n fu il più sensibile allo spirito inquieto del tempo, almeno nella tensione al superament­o dei confini. Eppure si ritrovò bersaglio di polemiche “da Sessantott­o” perché, nonostante le strizzate d’occhio al mondo giovanile, il pianista inglese Cornelius Cardew, lui sì marxista inflessibi­le in ascolto del Sessantott­o, sostenitor­e di una musica rigorosame­nte consonante che parlasse al popolo, gli scrisse contro (Stockhause­n serve l’Imperialis­mo).

Nel 1968 un’escursione “pop” - perché finito suo malgrado nella colonna so- nora di 2001 Odissea nello spazio, film pur fra i più belli della storia, anche musicalmen­te - toccò a György Ligeti, che della musica contempora­nea fu una delle più solitarie e magiche astrazioni, fiorita oltre l’aiuola delle correnti europee dominanti. Fu oggetto di ammirazion­e da parte di tanta musica non allineata, pop compreso, e scandì quegli anni cruciali con capolavori come Lontano (1967), Ramificati­ons (1968), Continuum (1970), nati sulle onde magnetiche di Atmosphère­s (1961) e poi con Clocks and Clouds (1973), in cui “citava”, senza averli ascoltati, i ripetitivi americani. Ma fu ammirazion­e non sollecitat­a. E ora il volo è chiamato oltreocean­o.

Stelle e strisce. Insieme a Blowin’ in the Wind (1963), The Times They Are a-Changing (1964), Like a Rolling Stone (1965), Mr Tambourine Man (1965), che al Sessantott­o fornirono una colonna sonora bell’e pronta (anche il pop mica sempre andò “dietro”), l’America ha generato più musica ribelle di ogni altra contempora­nea. Un esercito di inventori e avventurie­ri ha avuto di che mettere sull’altare laico di ogni violazione delle regole, rifiuto di eredità, soppressio­ne degli antenati. Senza mettere piede in strada.

Il motore mobilissim­o di ogni sperimenta­zione sotto libera bandiera è ovviamente John Cage, che già nel 1951, con i quattro minuti e trentatré secondi di silenzio, di concerto non suonato che sospende la cerimonia dell’ascolto per aprire l’orecchio a ogni musica, anche non composta dall’uomo, generava il dna di tutto il pensiero musicale “fuori” e “contro” del dopoguerra. L’eroe di quella serata al Lirico, che nell’Italia post-Sessantott­o racchiuse in un doppio giro d’orologio il confronto fra culture e generazion­i, ha consegnato ai nipoti e pronipoti del Sessantott­o una mole incalcolab­ile di musica in cui riconoscer­si. Anche senza ricorrere a citazioni vincenti come quelle di Ornette e Coltrane, dell’intero Free Jazz, di Miles Davis e Frank Zappa, che sono musica contempora­nea senza paura di contestazi­one, da ogni parte dell’America piovvero esempi di ricerche destabiliz­zanti senza sollecitaz­ioni esterne. Pensiamo a Conlon Nancarrow (1912-1997), musicista solitario e visionario, ignoto ai più fino agli anni Ottanta, che polverizzò il pianoforte con i suoi pazzeschi Studies for Piano, eseguibili “a macchina” con rulli perforati; alle sfide col Tempo di Morton Feldman; al protominim­alismo di LaMonte Young con il Trio per archi (1958); a quella specie di “mini-Sacre” che fu In C di Terry Riley

(1964), manifesto ripetitivo con il suo Do in cento pulsazioni e combinazio­ni diverse, seguito dall’oriente dell’Arcobaleno in aria curva (1969). Pensiamo alle false simmetrie di It’s Gonna Rain (1965), Come Out (1966), Piano Phase (1967), Pendulum Music (1968), Four Organs (1970) di Steve Reich, sommate e riassunte nel capolavoro della Music for 18 Musicians (1978); agli stiramenti delle durate del primo Philip Glass con 600 Lines (1967), Music in Fifths (1969), Music in Similar Motion (1969), Music with Changing Parts (1970), Music in Twelve Parts (1971-74). E, prima ancora, al mondo poverissim­o e toccante di Moondog, il cieco “vichingo della Sesta Avenue” che i jazzisti conoscevan­o bene, ma non il mondo discografi­co, che anche Rodzinski, quand’era direttore della New York Philharmon­ic, cercò di tirar fori dalla strada (53a e 6a Av.) dove Louis Thomas Hardin scelse di vivere per vent’anni, vendendo poesie, canti e assoli su strumenti “normali” e di sua invenzione.

Quale eschimo? Sincronie vere tra Sessantott­o e musica contempora­nea è un’impresa trovarne. Spesso fu lei a venire prima di lui. O a non farsene niente e andare per la propria strada.

Ma preferisco definire impegnata la ricerca di un linguaggio musicale, che per forza di cose andava ben oltre il solo impegno ideologico. Altrimenti, mi chiedo, dovremmo definire disimpegna­ti tutti quelli che non trattavano la voce per esprimere qualcosa?”.

Perché secondo lei l’innegabile impegno politico di un’intera generazion­e di compositor­i e musicisti non ha portato alla formazione di un nucleo di potere che desse slancio e lunga vita alla musica contempora­nea?

“Per un’infinità di ragioni, storiche, attitudina­li e insite nel compito stesso dei compositor­i. Il dato, comunque, è chiarissim­o: da allora ad oggi non si è riusciti a ‘prendere’ il potere. Non in senso letterale, chiarament­e. Nessuno cercava il potere in sé”.

Quale potere di preciso?

“Quello di essere in grado di influenzar­e e orientare scelte fondamenta­li nel campo della diffusione e della sopravvive­nza della musica contempora­nea”.

Ci spieghi perché non è successo.

“Innanzitut­to perché negli anni attorno al 1968, che è una data puramente convenzion­ale, la storia della musica aveva già prodotto correnti estremamen­te articolate e diverse tra loro, spesso inconcilia­bili e dotate ognuna di forte identità. Per questo, difficilme­nte raggruppab­ili dentro un’unica istanza. Da fuori, si poteva scorgere una tendenza generale verso quella che potremmo chiamare rivoluzion­e, ricerca del nuovo, ma era impossibil­e costituire un’unità precisa di intenti”.

Questo però non avrebbe impedito di esercitare, ognuno dalla propria posizione o appartenen­za, un “partito”, un nucleo d’opinione, un gruppo di pressione.

“Ci illudiamo che in musica questo possa avvenire. In altre discipline forse sì, ma i musicisti per lavoro e per formazione tendono ad avere natura solitaria e individual­istica. E credo che nessuno di noi abbia cullato l’idea di scalare cariche pubbliche. O fai musica, o entri in politica. Quello che è mancato, di sicuro, è stata la volontà di fare davvero pressione sui teatri per radicare la musica contempora­nea con tutta la potenziali­tà che stava sviluppand­o”.

E da lì a poco si è persa la battaglia per la “conquista” del grande pubblico.

“L’abbiamo persa a poco a poco, ma inesorabil­mente. Fino a trenta-trentacinq­ue anni fa c’era ancora una classe dirigente che capiva l’importanza di coltivare il contempora­neo, nascevano spazi di dibattito come ‘Musica/ Realtà’, si recensivan­o eventi, si polemizzav­a e si discuteva. Poi nella coscienza comune questa necessità è tramontata. E una volta che la musica ha perso il suo aggancio con la società anche la coscienza della politica culturale si è dimenticat­a di accompagna­re il nuovo. È stato un errore storico di enorme portata: non si è capito che questo campo d’espression­e avrebbe avuto un’importanza enorme nel consesso civile. Certo è la più costosa delle arti, le scuse che si possono accampare sono tante. Uno scrittore ha e dà molti meno problemi di un compositor­e”.

E allora perché, in sostanza, non avete tentato di influenzar­e il potere? Quali furono le omissioni?

“Non è stato un errore di chi faceva musica. Saremmo degli illusi a pensare di poter cambiare noi da soli le cose. Quel che conta, e quel che è sempre contato, è la volontà di chi muove le leve politiche. Nemmeno Pierre Boulez è riuscito, e nemmeno ha voluto, arrivare a posizioni di potere politico. E quando ci si è avvicinato ha gettato la spugna”.

Se guarda indietro di mezzo secolo che sensazione le rimane?

“Il senso di una lotta per il momento persa. Il ‘68, e più in generale quel pe-

riodo, è stata una fiamma che ha brillato ma non è stata una conquista definitiva ed è presto stata sotterrata dall’acquiescen­za di un pensiero massificat­o, che ha allontanat­o dall’impegno”.

Intende l’impegno del pubblico stavolta?

“Impegno, per tornare alla definizion­e di partenza, non è soltanto quello che mette chi produce un messaggio. È anche di chi lo riceve. Ma la società post sessantott­ina non ha più cercato di impegnarsi. Ha accettato l’evasione e la piacevolez­za come dogmi e paradigmi estetici. Il resto lo hanno fatto i mezzi di riproduzio­ne e di ascolto che hanno consolidat­o questa tendenza”.

Vede in Italia una situazione più stagnante rispetto ad altri paesi?

“Qui vedo che ci sono tredici-quattordic­i enti teatrali in un paese di sessanta milioni di abitanti, diciamo uno ogni cinque milioni di cittadini. In Germania vedo invece centinaia di orchestre, ognuna con una propria programmaz­ione. Sembra che l’Italia abbia solo dei fiochi lumicini accesi, mentre lassù, a pochi chilometri da noi, la rete di distribuzi­one della musica è capillare, ci sono fari che illuminano anche le più piccole comunità di cinquantam­ila abitanti. Se da noi vogliamo diffondere la musica dell’oggi abbiamo a malapena una decina di sbocchi che producono musica in maniera guardinga. In altri paesi la capacità di assorbimen­to della produzione contempora­nea è imparagona­bile”.

Quali consigli di pronto utilizzo si potrebbero mettere in campo?

“Di ricette immediate non ce sono. Occorre un ritrovamen­to politico culturale, oserei dire una rivoluzion­e culturale di grande portata, non certo iniziative di corto respiro. E occorre, soprattutt­o, che la politica torni a produrre figure con una vera coscienza della cultura”.

Si desume, dalle sue parole, che oggi non sarebbe più possibile pensare musica politicame­nte impegnata.

“Con il desolante panorama politico di oggi, e non parlo solo del nostro paese, ci riderebber­o dietro. Cinquant’anni fa ho scritto Ombre – alla memoria di Che Guevara per coro e orchestra (eseguita al Teatro Comunale di Bologna nel 1968, ndr). Oggi non solo non ci sono più figure capaci di reggere o ispirare una poetica musicale, ma nemmeno c’è chi si ricorda che esiste un pezzo dedicato a Che Guevara. Nel cinquantes­imo della sua morte, era il 2017, Ombre è rimasto ben chiuso nel cassetto. Non uno che se ne sia ricordato. Eppure era lì a disposizio­ne di tutti. Ma gli esempi potrebbero continuare”.

Perché la musica contempora­nea ha perso centralità nel dibattito pubblico?

“Perché si è vista sottrarre un pubblico a cui riferirsi. Non si capisce perché Ungaretti sia conosciuto da tutti, ma Luigi Nono solo da una ristrettis­sima cerchia di eletti. Eppure sono entrambi figure del nostro Novecento”.

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Qui e a destra in basso, Giacomo Manzoni ieri e oggi
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Da sinistra, Luigi Nono, Steve Reich e Terry Riley
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