ANTICIPAZIONI
Concreto. Serio. Affidabile. Rispettoso delle regole. “Germanico” perfino nello sguardo. Così era quel Giuseppe Verdi che seppe rappresentare vizi e virtù dei suoi connazionali, come racconta il nuovo libro di Alberto Mattioli
Concreto. Serio. Affidabile. Rispettoso delle regole. “Germanico” perfino nello sguardo. Così era quel Giuseppe Verdi che seppe rappresentare vizi e virtù dei suoi connazionali, come racconta il nuovo libro di Alberto Mattioli
L’arcitaliano Verdi italiano non lo sembrava affatto, almeno agli occhi di quegli stranieri che di noi hanno la solita immagine chiassosa e oleografica. Un ritratto di Jules Lecomte, pubblicato sull’“Indépendance belge” del 3 giugno 1855 (e riportato da Marcello Conati nel suo prezioso, indispensabile Verdi - Interviste e incontri, che ho ampiamente saccheggiato) dimostra lo stupore di questi forestieri alle prese con un italiano diversissimo da quelli cui erano abituati, serio, silenzioso, concentrato. Verdi, a Parigi per Les Vêpres siciliennes, è il contrario dei luoghi comuni. Macché cuore in mano, improvvisazione, faciloneria: “Frequenta poco il mondo, e vive nella società di qualcuno dei suoi compatrioti più placidi e più meditativi. È un uomo di un quarant’anni, dall’aspetto più germanico che italiano, e le cui maniere non hanno nulla dell’esuberanza e dell’ ossequiosità dei suoi compatrioti. Al contrario, è assai selvaggio, molto silenzioso, riservato quanto mai, troppo diffidente. Il suo esteriore è austero, quasi sgarbato; ha i capelli castano chiari, la barba incolta, il volto pallido…, la profonda cavità dei suoi occhi, il suo naso la cui curva è pronunciata, le sue labbra sottili, tutto gli dà un aspetto misterioso, il tutto mitigato da una grande impassibilità di attitudine. Saluta appena, non visita alcuno, lascia intrigare per lui, non dice motto, e rumina. Uno strano Italiano!”. In realtà, Verdi “strano” non lo era affatto, almeno per chi è cresciuto “in quella enorme zanzariera che è la valle del Po”, come dice Barilli impegnato a descrivere un uomo impregnato di campagna, autarchico e nazionalpopolare. A me, lo confesso, sembra quasi di averlo conosciuto, il Verdi. Apparteneva a una razza che oggi è estinta, ma che si è fatto in tempo a incrociare, almeno nei ricordi dei vecchi e nel lessico familiare. Aveva tutta l’asprezza e la generosità, la cocciutaggine e la pazienza, la tenacia e la diffidenza del contadino padano. Che avesse fatto fortuna e fos-
se diventato un grande proprietario, non cambia, anche perché, fossero padroni o mezzadri, agrari o braccianti, la mentalità di questa gente restava la stessa. Erano uomini “tutti d’un pezzo”, come si diceva appunto una volta. Verdi odiava avere debiti e che chi ne aveva con lui non li pagasse. I conti dovevano tornare fino all’ultimo centesimo, la parola data era sacra. Era severo con gli altri, ma anche con se stesso. Non si aspettava che il prossimo fosse generoso con lui, però quando pensava che fosse giusto, diventava generosissimo. La sua riservatezza non era modestia: da timido orgoglioso, conosceva il suo valore, ma non lo esibiva. Detestava gli invadenti, i faciloni e gli sciocchi. Non dimenticava mai i torti subiti, autentici o immaginari, e i suoi rancori erano tenaci, profondi e inestinguibili come i suoi affetti. Non sprecava né parole né soldi. Si assumeva le sue responsabilità e pretendeva che tutti facessero lo stesso. Il denaro gli piaceva. Sapeva che non cresce sugli alberi e non lo dilapidava, ma anche che non è tutto, quindi non si limitava ad accumularne e, al momento venuto, sapeva spenderlo. Credeva nel progresso, non sempre negli uomini. Rispettava le leggi ma criticava chi le faceva. La sua casa era bella, la sua tavola ottima, il servizio inappuntabile, ma senza ostentazioni, sprechi, cafonerie da nouveaux riches. Era un borghese orgoglioso di esserlo, il classico uomo che si è fatto da sé ma è capace di stare al mondo, coerente, concreto, laborioso, ordinato, austero, dignitoso ma non privo di ironia. Aveva capito tutto Giuseppe Giacosa, in visita a Sant’Agata nell’autunno 1884 insieme con Arrigo Boito: “Il Verdi è da molti riputato uomo ruvido e sdegnoso. Chi consideri la mole dell’opera sua, deve convenire come egli sia uno degli uomini che hanno meno perduto tempo”. Insomma, era fondamentalmente una persona seria. Il vero tratto dominante del carattere di Verdi è la volontà, quasi un riflesso di quell’Alfieri di cui, soprattutto da giovane, fu un accanito lettore. Ne derivava una concentrazione impressionante. Verdi non si cura di piacere alla gente, delle pubbliche relazioni, di apparire e nemmeno di mostrarsi. In teatro come nei campi, va dritto allo scopo. Chi lo ostacola è un nemico e come tale sarà trattato; chi lo aiuta sappia che ha un modo solo di farlo: come vuole lui. Con i familiari e con gli amici era cordiale, disponibile, perfino affettuoso, le testimonianze non mancano. Le generosità sono lì, tangibili benché accuratamente nascoste. Ma, appena al Verdi privato si sostituisce quello pubblico, questa durissima volontà riappare subito. Quanto al contegno pubblico, l’arcitaliano Verdi pareva un antitaliano. E negli ultimi anni era diventato, fuori dalla sua cerchia, il monumento di se stesso, la Storia fatta persona, un genio riconosciuto che si poteva approcciare solo con reverenza, spesso con affetto ma sempre con rispetto. Nel 1923, sul “Corriere della Sera”, Ugo Ojetti intervista Cesare Pascarella, che gli racconta della prima rappresentazione romana del Falstaff di trent’anni prima, il trionfo, l’eccitazione generale, la signora Giuseppina, Boito e Ricordi raggianti, l’orchestra del Costanzi che va sotto le finestre dell’albergo Quirinale a fare una serenata a Verdi. L’articolo è splendido, il racconto live doveva esserlo ancora di più: “[Pascarella] ha fatto tutti i gesti, le voci, gli sguardi, le inflessioni dei varii personaggi, pittore insieme e narratore. – Tu che hai conosciuto tanto bene il Carducci, chi metti più su, Verdi o lui? Si ferma, muove la testa da destra a sinistra, da sinistra a destra: – Quello… quello… Verdi era d’un’altra razza… come dire?… non era un òmo come gli altri. A Carducci, e Dio solo sa se gli ero devoto con quel gran bene che m’ha fatto, a Carducci, due o tre volte m’è capitato, così, nella foga del discorso, di mettergli una mano sulla spalla. Ma a Verdi? A Verdi, non ce l’ha messa mai nessuno. Quello… – Fa con la mano tesa un gesto verso l’alto, e guarda su per vedere se fra terra e cielo c’è più posto per una statura simile”. Ci capitasse per miracolo di incontrarlo, se potessimo per una volta incrociare lo sguardo grigio azzurro di quegli occhi infossati che colpiva tutti, l’imbarazzo sarebbe lo stesso. La sua era la grandezza personificata, non ostentata né tronfia, ma grandezza, autentica grandezza, sì. Verdi era consapevole di essere Verdi. Ha ragione Francesco Maria Colombo a stigmatizzare chi ha di lui una visione “vulgata”, rimpicciolita, provinciale, da strapaese longanesiano, che “si esprime nel modo tipico e odioso di chiamarlo, come in molti fanno, “Peppino”: cosa che non si permetteva, lui vivo, nemmeno sua moglie”, che infatti lo chiamava Verdi o Maestro o Mago. Giusto. I nomignoli, teneteveli per voi.